MORTIER Salisburgo perde un provocatore di Sandro Cappelletto

MORTIER Salisburgo perde un provocatore MORTIER Salisburgo perde un provocatore Sandro Cappelletto SALISBURGO Doveva dissolvere il fantasma di Herbert von Karajan, che aveva regnato per ventitre anni, e imporre la propria diversa presenza. Ereditava il più solenne luogo dell'ascolto, ha voluto trasformarlo nel palcoscenico della modernità, delle sue ricerche e provocazioni, mantenendo l'eccellenza dell'offerta musicale. 1991-2001: dopo undici anni di governo, Gerard Mortier lascia la direzione artistica del Festival di Salisburgo; ha avuto amici e avversari, comunque nessuno musicisti, pubbhco, sistema dell'informazione - è potuto rimanere indifferente alla metamorfosi da lui imposta al più significativo festival europeo, il cui prestigio rimane intatto. Dunque, ha vinto. Esordi con delle dichiarazioni radicali: «Il festival di Karajan era diventato il simbolo della commercializzazione discografica» - «Questo pubblico è composto da nuovi ricchi aizzati dalla peggiore stampa» - «Sono contrario allo star-system: le porte dei nostri teatri sono troppo strette per le spalle di Luciano Pavarotti» - «Chiamerò qui artisti vivi, i migliori creatori della nostra epoca». La propensione iconoclasta era sempre accompagnata da un sopraffino fiuto mediatico: le polemiche aiutano, tengono accesi i riflettori, stuzzicano gli interessi degli sponsor. Che a Sahsburgo - e in questo Mortier è stato maestro - non sono mai mancati, contribuendo in misura importante a mantenere sostenibile il bilancio. Se sentiva tendersi la corda dei rapporti con il governo di Vienna, giocava d'anticipo accusando i suoi interlocutori politici di grettezza, di provincialismo, di essere reazionari e basta: chi conosce l'Austria, sa come esattamente questo sia tuttora uno dei nervi scoperti della nazione. Quando il partito di Haider andò al governo, lui si dimise, dettando un secco comunicato stampa da New York. I politici austriaci si spaventarono, perché il danno di immagine era violento, e rimasero come in panne; per un mesetto, Mortier si divertì a non cambiare idea, poi disse che era stato il suo amico Pierre Boulez a convincerlo a restare, «perché il mio dovere è resistere». Oltre le tattiche e le astuzie, il lavoro di un direttore artistico si giudica anzitutto dall' originalità e dalla qualità delle proposte. In un periodo caratterizzato, nel teatro d'opera intemazionale, dal predominio dei sovrintendenti e delle loro logiche gestionali, di marketing, di relazioni istituzionali e sindacali, lui ha invece rivalutato l'aspetto progettuale e creativo del proprio ruolo, insistendo in particolare sul problema attualissimo del «teatro di regia». Mentre continuava ad assicurarsi i mighori cantanti, ha chiamato a Sahsburgo i nuovi registi, concedendo loro una libertà di sguardo pari a quella riservata ai direttori d'orchestra. Ha chiesto alle loro diverse culture, europee e americane, di confrontarsi con i titoli del tradizionale repertorio lirico, ha regalato alcuni spettacoli onnai memorabili: «San Francesco d'Assisi» di Messiaen-Peter Seilars, «Don Carlos» di Verdi-Wemike, «La damnation de Faust» di Berlioz-La fura dels Baus. I deludenti allestimenti mozartiani e straussiani di Marthaler e Neuenfels, troppe volte riproposti, sono imputabili al lato meno nobile della personalità di Mortier: uno sterile narcisismo, un insistito compiacimento verso la cultura della provocazione fine a se stessa. Un aspetto che nelle ultime edizioni del festival si è dilatato, talvolta in modo prevedi¬ bile. Il motore della genialità ha cominciato a fare fumo. L'attenzione verso la vitalità contemporanea della musica è stata costante, permettendo un parziale ricambio del pubblico, sollecitato anche da una politica dei prezzi attenta ad offrire occasioni di ascolto a chi non può permettersi le cifre di una prima. I due cicli di concerti affidati, nel 1995 e nel 1999, a Maurizio Pollini, quando capitava di ascoltare assieme Monteverdi e Maderna, Mozart e Schònberg; gli omaggi a Boulez e a Luigi Nono; la prima di «Cronaca del luogo» di Luciano Berlo; i tanti debutti di nuovi compositori in un palcoscenico eh tale rilievo sono risultati ecceUenti, raggiunti grazie alla collaborazione con un finissimo organizzatore quale è Hans Landesmann. Ora che se ne va, lasciando il timone al compositore e chrettore Peter Buzicka, il positivo bUancio di Mortier non è, complessivamente, contestabile. Se il suo modo di immaginare Salisburgo è stato anche una sfida lanciata ai colleghi, bisogna constatare che ben pochi l'hanno raccolta, tantomeno in Italia. Paolo Costa, sindaco di Venezia, ha invitato Mortier a lavorare alla Fenice: lui ha declinato, preferendo - e come dargli torto? - l'avventura di un festival da inventare nella Kuhr, tra acciaierie dismesse e nuovi luoghi di ascolto e di azione teatrale. Ha cinquantasei anni, è sempre sicuro del proprio talento geniale e sbarazzino, ne sentiremo presto riparlare. Ha ereditato il più solenne luogo dell'ascolto e lo ha trasformato nel palcoscenico della modernità Ha saputo assicurarsi i migliori cantanti e registi; ma ha anche ceduto al suo sterile narcisismo Sopra «San Francesco d'Assisi» di Olivier Messiaen messo in scéna a Salisburgo con la regia dell'americano Peter Seilars qui a destra Gerard Mortier che lascia il Festival dopo oltre dieci anni di direzione