ETNA la «muntagna» irritata di Igor Man

ETNA la «muntagna» irritata DI FASCINO E PAURA Mmmm ETNA la «muntagna» irritata testimonianza Igor Man NO, non era il brontolio d'un tuono d'estate; gli somigliava, certo, giungeva di lontano, gutturale, minacaoso e intanto la terra tremava, impercettibilmente, mentre un filo di nausea cuciva la curiosità al timore di qualcosa di molto misterioso. Don Ciccio, il massaro, accortosi del mio pallore: «Nenti è, voscenza - disse -, a muntagna è, 'stu cauru a siddia»; (è laNmontagna, questo caldo la irrita). Correva l'estate del 1936, avevo dieci anni, mia madre era morta da due, il barometro segnava 38 gradi all'ombra e il vento del mare non riusciva a raggiungere Cibali; i «bambini» (Mirko e Marussja, i miei fratelli minori) snervati dalla calura piangevano spesso, senza un motivo apparente e Fraulein Kleinfeller non ce la faceva a reggerli; così, un bel giorno, mio padre ci caricò sull'Ansaldo nera decapottabile e via sulla montagna, al fresco di Zafferana Etnea. A 700 metri d'altezza, Zafferana aveva case odorose di farina e di mele, la notte si dormiva con la copertina di lanetta sulle lenzuola di lino, la grande piazza principale si protendeva come un trampolino sulla Valle dell'Alcantara, col mare lontano scolorito da foschi vapori all'orizzonte. Quando, al mattino, spalancavo la finestra a muntagna, l'Etna, entrava in casa. Cosi prossima stranamente non incuteva paura ancorché fosse immensa, col fumo torbido che usciva esile dal cratere, scarabocchiando inalterabili chiazze di neve etema. Ogni tanto l'Etna brontolava ma quel gorgoglio gutturale che si impastava con il lievissimo, ininterrotto tremore della terra, a Zafferana non turbava nessuno: né i nativi, nei villeggianti. Il Caffè Tomarchio, il Caffè di Donna Peppina, posti all'estremità della piazza grande, si dividevano imparzialT. mente la clientela. Da Tomarchio facevano un espresso eccezionale; Donna Pappina offriva imbattibiiipasticcini alla pasta di mandorla. I borghesi ricchi che avevano la villa passavano il tempo giuocando a tresette. Le loro signore (come usava dire) inanellavano pettegolezzi cittadini aggiornandoli sui fatti di Zafferana coté villeggianti; le donne più giovani giuocavano a ramino su tavoli rotondi di marmo e ghisa del «circolo», organizzando gite a Milo, un paesino letteralmente aggrappato alla montagna. Gli «altri» passeggiavano nevroticamente, parlando sottovoce. Il professor Guglielmino, grecista e poeta, Vitaliano Brancati, il professor Libertini, mio padre. Ercolino Patti, il professor Magri, Ciccio Anfuso a me che li scrutavo attento apparivano nervosi, persino turbati. Vorticava nell'aria il paventato «provvedimento» contro gli ebrei e quegli intellettuali che (lo ricordo benissimo) anziché rallegrarsi quando la radio trasmise la conquista dell'Impero, avevano commentato, palhdi; «Siamo davvero sull'orlo del vulcano», loro, gli «altri» s'aggrappavano alla speranza che il tiranno, in un soprassalto di dignità, non s'arrendesse a Hitler. Ma il primo settembre dell'anno seguente il re avrebbe firmato le leggi razziali. A Catania gli ebrei, nel 1936, erano in numero di 75. I più noti e simpatici, i Grinstein, fuggiti da Odessa, avevano messo su un florido export di agrumi. La famiglia Grinstein comprendeva Liowa e Berta, la loro figlia, il nipote (orfano) Pietro detto Petruska e il fratello di Berta, Jlija, pianista di talento. Mio padre, romantico socialista turatiano, era rimasto in buoni rapporti con il suo ex compagno di banco alle elementari, Filippo Anfuso, braccio destro del potentissimo Galeazzo Ciano (per i siciliani veri, l'amico è più d'un fratello, l'amico autentico, dico: col fratello infatti ci convivi, mentre con l'amico [idealmente] ti coniughi). Temendo pei Grinstein, mio padre s'era più volte recato a Roma a chieder lumi a FUippo Anfuso e quello, forte del fatto che Ciano considerava una «assurdità» schierarsi sull'antisemitismo con Hitler (che odiava, ricambiato) si diceva convinto che Mussolini avrebbe «sbattuto la panna» e nulla di più. «Sia come sia, digli di premunirsi», ma quelli, i Grinstein, si rifiutavano di credere che Mussolini potesse perseguitarli. Invece furono sfrattati senza pietà, dall'og- gi al domani, e mio padre ottenne, soltanto, con immane fatica, sordo ai richiami «non comprometterti, pensa ai tuoi figli», che Jlija portasse con sé, in Svizzera, l'adorato pianoforte. Tantissimo tempo dopo, nel 1953, ritrovai la cara Berta a Waterbury, nel Connecticut , dove Petruska, che aveva assunto il cognome Stevens («cosa credi, Igor, gli americani, ci tollerano e basta, noi ebrei») era il proprietario d'una piccola ma redditizia fabbrica di aghi. E fu grazie a una lettera di Berta ch'ebbi un'importante intervista con Ben Gurion, amico di vecchia data dei Grinstein. A Zafferana, intomo agli «altri» girava un pretino sveglio, il vice parroco Turi Pappalardo, che curava la vocazione d'un nostro compagno di giuochi, lievemente più grande di noi. Anch'egli si chiamava Turi Pappalardo, sarebbe diventato il cardinale di Palermo, il coraggioso cardinale Pappalardo, amicoalleato di Falcone e di Borsellino. Il padre del futuro porporato era un galantuomo e il Fascio lo aveva nominato Podestà di Zafferana. Il vice parroco sapeva in anticijK) dal suo omonimo aspirante seminarista in quale giorno sarebbe piombato a Zafferana l'agente dell'Ovra (la polizia speciale fascista) incaricato di controllare gli «altri». Vitaliano Brancati si divertiva a chiosare qualche articolo di Crìtica, la rivista di Benedetto Croce, che si trovava soltanto in una libreria, scrivendo col lapis blu: «errore» ovvero «dissento», con grande scomo dello spione. Quelli dai quali affittavamo la casa, due piani, bianca, tra una vigna e un castagneto, si chiamavano Russo. Il capofamiglia, Don Cirino, detto «mirichiddina» (molhchella), raffreddatasi la lava che nel 1928 aveva coperto il loro frutteto (le mele di Val Calanna), aveva frantumato la sciava, metro dopo metro, insieme col p?.J-re, durante lunghissimi cinque anni, facendo sorgere in Val Calanna, un nuovo giardino delle Esperidi, giustappun¬ to ricco di pomi piccoli e dolcissimi, biancorossi. Un mattino bello partimmo per la Val Calanna. Mirko e Marussja dentro le bisacce sul dorso del mulo dei «mirichiddina», io a tener le briglie, don Cirino avanti, mio Dadre dietro il quadrapede. L'Etna brontolava come al solito, e il sentiero a strapiombo sulla Valle del Bove era come se rabbrividisse con quel suo sommesso sussultare continuo. Andavamo ai passo del mulo incontro al sole, e il terribile vulcano ci appariva a guisa d'una belva accucciata sulla lava nerazzurra striata di neve. La casetta dei Russo aveva una terrazzina dove desinammo attingendo tutti da un unico piatto di ceramica, forchettate di maccheroni al ragù, capolavoro della bellissima moglie di Don Cirino: aveva il viso bianco come la magnolia incorniciato dai capelli neri di certe Madonne dell'Utrillo. La casa che ci avevano affittato aveva, al pianterreno, un fomo a legna e Donna Peppina veniva a fare il pane. Quando le pagnotte eran tutte pronte, in pasta, le posava su di un asse e affinché lievitassero vi stendeva sopra un paio di pantaloni. Lo faceva per tradizione, innocentemente, senza rendersi conto del fatto che quel paio di pantaloni simboleggiava la virilità fecondatrice, mentre le pagnotte, attraversate da uno spacco, simboleggiavano il grembo della femmina. D.H. Lawrence quando fu a Taormina con Frieda, scrisse che «il siciliano non ha nulla della nostra coscienza soggettiva»; Mastro Don Gesualdo, con la sua «roba» è all'opposto contrario di Dostoievski. «Nulla si può immaginare meno russo di Verga, salvo Omero. Eppure Verga è pieno di pietà come i russi. Verista come i russi. E come i rissi non vuole eroi». Mastro Don Gesualdo «è oggettivo senza rimorso come tutti quelli che vivono nelle terre del sole». Ma allorché il sole si oscura come sta accadendo in queste torbide giornate annerite dalla cenere fosca dell'Etna, furente come Polifemo? «Nello stare insieme da cittadini, i sicUiani diventano gretti. In montagna diventano prodigiosi e tanto intelligentemente consci di quel che fanno». Oggi, mentre a Catania la gente esce con l'ombrello per difendersi dalla fitta pioggia eruttata senza posa dall'Etna che gannisce notte e giorno, terribile qual cane preso nella tagliola delle volpi, e c'è qualcuno che sfidando la foschia lavica si immerge nel mare contaminato della Plaja uscendone col viso da Pierrot, lassù sulla muntagna, col cappuccio della giacca a vento a proteggere il capo, donne e uomini, bambini, sostano dinnanzi all'altarino che ricorda il miracolo del 1886: il cardinale Dusmet portò in processione il velo di Sant'Agata, patrona di Catania, e davanti a quell'impalpabile reliquia la lava si fermò. «Intelligentemente consci di quel che fanno»; nel 1951 ilgiomale mi mandò a Catania perché l'eruzione minacciava Milo, quel paesino sopra Zafferana. Allora non esisteva la Protezione Civile, ci si arrangiava con l'aiuto dei soldati, pietosi figli del Nord, rispettosi della «roba» non importa se degli altri. Tornando con la memoria a quell'eruzione dell'Etna, il vecchio cronista russosiciliano rivede una casa in contrada Fornaci, più nuova delle altre. E' bianca con l'uscio dipinto di verde e le finestre rosse. Sui davanzali, vasi di terracotta fioriti di margherite. Una ginestra giallissima cresce impetuosa proprio accanto alla cisterna. E' la dimora di Turi e di Nunziata, contadini di Milo, sposatisi il primo dicembre dell'anno di grazia 1950. Il giorno precedente, al mattino, cadeva la festa del Santo Patrono, l'apostolo pescatore Andrea, portato a Milo da Giovanni d'Aragona, duca di Randazzo, nell'anno del Signore 1338. Turi e Nunziata, ancora fidanzati, avevano seguito la processione per scongiurare il Protettore che fermasse il fuoco. L'Etna era nella sua prima fase eruttiva, la lava stava per colmare Piano Bello ed affacciarsi sul «ciglione del panico» da dove sarebbe rovinata in basso. Proprio quando sembrava che tutto fosse perduto. due giovani a notte tre il torrente di fuoco arrestò la sua marcia: Sant'Andrea aveva fatto il miracolo. L'indomani, nella chiesa dal pavimento ruvido, fra l'incenso e le lacrime. Turi e Nunziata furono uniti in matrimonio dal vecchio arciprete che s'era levato dal letto, lui, vecchio e malato, per benedirU. Nella notte i petali di gelsomino che le giovani amiche di Nunziata avevano sparso sull'aia felice, furono, di colpo, percossi da un brivido di fuoco: l'Etna s'era di nuovo impazzito, la terra tremava: dai fianchi del vulcano spicciava violenta la lava infuocata. E così, ora, Turi sta caricando su di un carretto piccolo piccolo, affidato a un asino deperito, i mobili nuovi, la radio, la madia dei suoi nonni, i materassi ripieni di buona lana di paese, il grande letto antico dove lui è nato, dove suo padre venne al mondo. Nunziata non lo aiuta. Il suo seno fresco trema in un pianto silenzioso: inginocchiata sull'aia ripone il corredo in una grande cassa di legno scuro, la stessa che servì a sua madre, a sua nonna. Carezza le lenzuola di lino, liscia con amore le camicie ditela, rozze e complici, la biancheria intatta di giovine sposa, cucita durante lunghi giorni quando Turi era lontano, sul Don, a combattere contro un altro torrente di fuoco che travolgeva la «meglio gioventù». Dalla montagna giunge incessante il boato dell'eruzione: acre il puzzo dello zolfo avvelena l'aria; iroso il vento spara la sabbia nera sugli ultimi castagni; nella strada, in basso, gridano: «Presto», fra mezzora la casa sarà investita dalla lava. Turi e un soldato caricano la cassa del corredo, poi il carretto si muove traballando. Gli sposi non si voltano indietro. A che serve? Tutta la vita saranno perseguitati dalla loro casa perduta. «Intelligentemente consci della realtà» sanno che non vale voltarsi a guardare il paese che se ne muore. Indietro non si toma. Addio Milo, dicono le spalle mute di Turi e di Nunziata: tu sei l'amore e la vita, il profumo dei gelsomini e del mosto in fermento, il paop caldo nel fomo, il sorriso di nostra madre giovine, la speranza e l'attesa. Ovunque andremo, Milo ci chiamerà anche da sotto la lava. Sempre. Questo dicono le spalle di Turi e di Nunziata. Ieri come oggi, e ahimè domani, la lava rovina giù dal ciglione d'un nuovo cratere e il magma, rinvigorito, scorre sul letto Uvido che avanza. E' come un immenso pastone di miele nerazzurro, fradicio di detriti infuocati, su cui scivola il mostruoso dorso d'un enorme elefante solcato da una lebbra rossa di fuoco. Un «pus» maledetto e ùnplacabile che muggisce come un torrente in piena, scandendo la sua marcia al ritmo di una pioggia come di canali in frantumi, punteggiandola di boati cupi, gutturali. «Voscenza, non si scantassi, a muntagna è», diceva Don Ciccio il massaro. Quando eravamo piccoli per sfuggire al gran caldo andavamo a Zafferana Ogni mattina spalancavo la finestra il vulcano entrava in casa col fumo torbido che usciva esile dal cratere scarabocchiando chiazze di neve eterna Affittavamo la casa bianca dei Russo Il capofamiglia Don Cirino, raffreddatasi la lava che nel 1928 aveva coperto il loro frutteto, aveva frantumato la «sciara» metro dopo metro facendo sorgere un nuovo giardino Turi e Nunziata, due giovani sposi fuggirono la notte delle nozze mentre la terra tremava caricando le poche cose su un asino deperito La piazza centrale di Zafferana Qui a destra una processione per placare l'Etna In basso: un gruppo di persone abbandonano i paesi minacciati dalla lava e un'eruzione del vulcano t