Milosevic: non avete diritto di giudicarmi di Pierangelo Sapegno

Milosevic: non avete diritto di giudicarmi Milosevic: non avete diritto di giudicarmi L'ex dittatore lancia la sua sfida solitaria ai giudici Pierangelo Sapegno inviato a L'AJA Con il suo vestito blu e quegli occhi diritti, sembrava il sindaco triste degli sposi. Anche i giocatori di poker sono così. Ti accorgi solo alla fine che ti hanno pelato: non l'avresti mai detto. In principio, Slobo s'è guardato attorno con imbarazzo. Gli avevano messo due marcantoni alle spalle e s'è voltato verso i giornalisti. Ogni tanto ha chinato gli occhi. Slobodan Milosevic ha aspettato l'aula piena, ha aspettato di avere Carla Del Ponte in faccia e le televisioni accese, ha aspettato di essere ancora una volta al centro del mondo anche se nel ruolo peggiore, dell'imputato, per recitare invece la parte che conosce meglio, quella dell'istrione, del padrone con il panciotto e il sorriso di chi comanda. Due volte ha cercato il colpo ad effetto, come un giocatore di biliardo che stringe gli occhi per andare a punto. Richard May, il presidente, gli chiede: «Vuole ascoltare l'atto di accusa?». Lui si avvicina al microfono sprezzante: «Questi sono affari suoi». Buca. Nella sala stampa scoppia una risata. Alla fine, l'udienza si chiude e lui si alza per seguire i poliziotti: prima di passare la porta alza le mani che teneva intrecciate sul grembo e guarda l'ora ostentatamente. Sussurra: .«Solo dieci miput,ia,..Ha.L'aria di-dire^-MBene, abbìf&o'fatòln-frettaB.'Seconda risata generale. Punto. Anche se s'era sbagliato: è durato 12 minuti. Per lui, in verità, sono molto più di 12 minuti, o di dieci. Questa è la sua partita, quella della vita. Anche se è impossibile, fa finta di non farlo capire. Gli altri cercano di fargli capire che ha già perso. Tre volte gli hanno tolto la parola, quando il presidente ha schiacciato un pulsante sgridandolo come un moccioso: «niente comizi». Lui è rimasto indifferente, freddo: il giocatore di poker che ha alzato la posta e non sono venuti a vederlo. Ha tirato fuori la mascella, in avanti, come faceva Mussolini, ha puntato gli occhi, ha. abbozzato sorrisi. Tutto in quei dodici minuti. Prima, era un altro. Questa notte chissà se aveva dormito. «Benissimo», giuravano i suoi avvocati. Però in aula si avvicinava al microfono, prima ancora che gli dessero la parola, come uno che è da un pezzo che aspetta questo momento, che non ci ha neppure dormito sopra per pensarci. Poi, invece, quando parla, è come se improvvisas- se, se tirasse fuori le cose di getto, dice «tribunale falso» al posto di illegittimo. Chi è davvero Milosevic? Quando arriva sembra un uomo stanco. L'hanno preso poco prima delle 8 dal carcere, l'hanno portato al Tribunale dentro un furgone, scortato da auto con i vetri oscurati e poliziotti in moto, tutti in colonna a sirene spiegate. E' rimasto in una stanza per quasi due ore. Alle 9 e 55 minuti l'hanno portato in aula e si è seduto alla destra della Presidenza, di fronte al banco del Procuratore. Accanto a lui si sono messi due agenti, e un altro stava più sotto con un microfono in mano. Per qualche minuto è rimasto da solo, e allora ogni tanto ha voltato lo sguardo verso la platea dov'erano piazzati i giornalisti, dietro la vetrata antiproiettile, come se cercasse qualcuno. Mentre sta lì, immobile. ferme anche le mani, una posata sul bracciolo sinistro e l'altra sul banco, non resta niente nei suoi occhi che faccia pensare all'ira, alla foUia, alla tragedia. C'è piuttosto qualcosa della vergogna. Annotiamo: «faccia stanca». Ma ci sbagliamo, e lo capiremo bene dopo, quando entra la Corte e lui prende la parola, abbozza sorrisi sardonici, si protende sullo scranno per attaccare, risponde alle domande per provocare la sfida. In realtà, sin dall'inizio, l'udienza sembra obbedire a ima regia nascosta, che vuole metterlo a disagio, quasi umiliarlo, fargli capire che qui dentro non è solo un imputato, ma soprattutto imo che deve prendere ordini, accettare le regole degli altri, i loro verdetti, le loro decisioni. Lui è il dittatore che non può più decidere niente, il presidente che non conta più, che ha perso tutto il suo potere, e che ora si presenta nudo davanti al mondo, in diretta tv. I primi minuti, quelli dell'attesa, sono i più scomodi, come se fosse un questuante obbhgato in una sala d'aspetto qualsiasi. Non è stanchezza. E' un senso d'imbarazzo, di vergogna, il suo. Dopo dieci minuti entra Carla Del Ponte, ed è in questo momento che cambia il suo sguardo, che il prigioniero ridiventa protagonista e il questuante ritoma istrione, un primattore che cerca il suo pubbUco e sa bene come . parlarglLNon si difenderà?, hanr. no chiesto all'avvocato Zdenko Tomanovic. «Come vedete non si difende. Attacca». E' vero, lo si capisce quando entra il Procuratore. Lui non vaga più con gli occhi. Milosevic U punta. Fissa Carla Del Ponte mentre si avvia al suo posto, quando si aggiusta la toga, quando posa i fascicoli sul banco. Slobo nel suo ruolo ha ritrovato la sua forza, e quando il poliziotto sotto di lui gli fa cenno che si deve alzare in piedi perché entra la Corte, lui obbedisce proprio mentre una telecamera fissa bene un sorriso nascosto, l'esibizione del disprezzo. Verrà sconfitto da questo processo, Milosevic. Solo che oggi lui pensa ancora di no. E oggi, solo oggi, ha vinto lui, anche se questa non è nient'altro che una vittoria di Pirro. Questa è la sua platea. Parla alla sua gente in serbo: «Non sono il primo che si è dichiarato prigioniero politico», dice. L'aveva fatto Tito, nel '37. E lui vuole dire proprio questo, «io sono l'erede di Tito». E adesso che Slobo ha ritrovato la grinta, anche quando gli faranno di nuovo capire chi comanda, qui e in questo momento, quan- do Richard May gii toglierà la parola per tre volt? schiacciando un bottone e dicendo che «non è questa la sede par i discorsi», quando lo sgriderà coma uno scolaro qualsiasi, messun comizio», lui, il dittatore, finirà la sua frase in serbo sul ^tribunale falso e illegittimo» e terrà ancora la testa alta e lo sguardo diritto, senza disagio. Non è estremista nelle sue pose. L'estremismc è una malattia infantile, aveva detto Lenin. Non è aggressivo nei suoi modi. Un buon giocatole non perde mai la calma, insegnano i grandi maestri del poker. Non risponde. Dichiara. Scandisce: «Non ho alcuna necessità di nominare un avvocato di fronte a un tribunale falso e false sono le accuse a mio caiico. Voi non avetd nessuna autorità per giudicarmi». Quando, al termine dell'udienza, gli diranno; «La signora Del Ponte vuole incontrarla», lui risponderà: «Non voglio nessun contatto con lei. Non ho intenzione di rispondere alle sue domande». Sa bene che oggi la mano deve chiudersi qui, che non bisogna continuarla, che la partita è dura e aver vinto un romici già basta e avanza per ora. Forser accetterebbe di incontrare il procuratore solo davanti alla televisione. Anche per non dire niente, ma non importa, quello che conta è la partita. Lui sa bene che cosa viene a fave qui dentro: a giocarsi la sua. Anche il vestito interpreta e spiega i suoi gesti, le sue parole. Slobo indossa il completo blu allaoriato al secondo bottone della giacca, la camicia bianca, la cravatta regimental con i colori della Jugoslavia, bianco rosso e azzurro, e «le scarpe luccicanti», proprio come l'aveva descritto la sera prima il suo avvocato, Zdenko Tomanovic, sorridendo ai giornalisti che gli domandavano come aveva trovato Milosevic: «Bene. In perfetta forma. E noi gli abbiamo portato un bel vestito». Per sedersi al tavolo, c'è bisogno anche di quello. Lui lo sa e ha curato tutto. Quando l'udienza finisce, quando esce alzando il polsino della giacca per guardare l'orologio, sbuffando piate almente «solo dieci minuti», e quando sfodera ancora la mascella, sollevando la testa prima di sparire dietro la porta, noi abbiamo già dimenticato il signore quasi imbarazzato che aveva cercato qualcosa oltre la vetrata, verso il pubblico e i giornalisti. Avevamo pensato che cercasse qualcuno. Invece alla fine abbiamo capito. Cercava qualcosa. La sfida. E' entrato nell'aula con gli occhi smarriti guardando i reporter ma si è ripreso con rabbia quando è entrata la Del Ponte Vestito con un completo blu e la cravatta con i colori della Jugoslavia si è fatto zittire tre volte dal presidente Alla fine della seduta si è alzato per seguire i poliziotti e ha guardato l'orologio imun sospiro come, per dire «è già finita» Slobodan Milosevic entra nell'aula del Tribunale dell'Aja senza manette, scortato da un agente dell'Onu

Luoghi citati: Aja, Jugoslavia, L'aja