Un incubo a Scheveningen: il suicidio di Pierangelo Sapegno

Un incubo a Scheveningen: il suicidio Un incubo a Scheveningen: il suicidio Per Slobo uno psichiatra Pierangelo Sapegno inviato all'AJA Oggi che non fa più paura agli altri, hanno paura per lui. Eppure, Slobodan non sembra un uomo abbattuto. Chi l'ha visto in questi due giorni dice che «sembra pieno d'orgoglio». Lui ha detto: «Sono un prigioniero politico. Non ho sangue sulle mie vesti». Non serve vederlo. Il pezzo di Storia che sta chiuso là dentro è fatto come quasi tutta la Storia, «con il sangue e con il dolore», come dice Erik Stegeman. Erik è il tipo che l'altra notte era salito sul tetto di casa sua per filmare Slobodan Milosevic mentre lo portavano oltre questo portone, in questo carcere di Scheveningen dalle mura massicce e cupe, piantonato dai tigli e circondato da villette con i prati. Erik voleva «riprendere la storia», e adesso che lo spiega fa quasi tenerezza: «Mia figlia non c'era, quella notte: l'ho fatto per lei, perché un giomo lo potesse vedere». Milosevic aveva un vestito grigio e la camicia bianca, e il vento gli scompigliava i capelli bianchi. Camminava eretto, con le mani davanti e la faccia alta. Tutto lì il frammento della Storia. Anche adesso Slobodan è vestito così. E anche adesso tiene la faccia alta. Nella sua cella d'isolamento stile Ikea c'è una sedia che fa da tavolino, e l'ha messa dietro al letto, accanto alla tenda che copre la finestra con le grate d'acciaio. Non c'è niente da vedere fuori. Lui si rilegge le 41 pagine dell'atto di accusa che gli hanno consegnato l'altro ieri, una sequela di nomi, uno per ogni riga, in fila all'altro, come Mustafa Mohamet, o Salihu, che riempiono i fogli per inchiodarlo: «Criminale di guerra». Lui risponde come sempre: «Sono un prigioniero politico». Nell'unica telefonata che ha fatto, ha alzato la voce per farsi sentire bene: «La mia estradizione è stata un sequestro». Carla Del Ponte ha chiesto un isolamento di IO giorni, ma, avvisa, «mi riservo il diritto di chiederne altri». Milosevic sta solo e in silenzio. Ha chiesto anche della carta e una penna. Prende appunti, cancella, sottolinea. Ha posato le pastiglie contro l'ipertensione sulla sedia. Non ha voluto altre medicine. Ha fatto una sola telefonata a sua moghe. Mira, in questi due giorni: «Non preoccuparti, sto bene. Verrò fuori da questa storia. Ne uscirò vivo e vegeto». Dalla Corte dicono che ha chiamato due dei suoi avvocati, uno dei quali, Denko Tomanovic, sarebbe già arrivato all'Aja. Sono gh altri che hanno paura. Sua moghe Mira gh diceva di «non abbattersi». Gh avvocati cominciano a tuonare contro i «diritti civili violati», perché non lo lascerebbero neanche parlare con la famiglia. La Corte teme la peggiore delle beffe, dopo tanta fatica per portarlo in un'aula di Giustizia: il suicidio. Gh hanno messo uno psichiatra a disposizione. Lui per ora non lo vuole. Nella famiglia di Slobo, il suicidio» è un compagno che è già passato: suo padre Svetozar era un ex prete ortodosso che si sparò un colpo di pistola neir82; sua madre Stanislava si impiccò a un lampadario di casa nel '74 e fu propio Slobodan a trovarne il corpo senza vita; anche un altro zio si uccise. In questo carcere, invece, si appese a una corda nella sua cella Slavko Dokmanovic, un altro degli imputati serbi. Jim Laudale, il portavoce del Tribunale, dice che «se ci fosse qualche avvisaglia di pericolo, sapremmo come intervenire». Ma non c'è pericolo, assicura. Milosevic è solo, non può far niente e nessuno può farglielo. Nella prigione, gh aìtri frammenti di questa storia di sangue e di dolore sono tutti lontani, da Biljana Plavsic al generale Blaksic, a Krstic, l'altro generale accusato di genocidio per il massacro di 7000 musulmani a Srebrenica. Slobodan passa il suo tempo nella cella di 15 metri quadrati. Non chiama nessuno. Soltanto la sera che arrivò qui, telefonò a Mira. Dal carcere, dicono che anche lui ha avuto come tutti gh altri detenuti la carta telefonica da 75 fiorini. «Forse non ci riesce, le linee sono intasate». Jim Laudale la notte che lo portarono in infermeria, gh dette il suo telefonino per chiamare la moglie. «Ce la farò, non ti preoccupare», la consolò Slobo. E poi disse che lui era un prigioniero politico e che così si sarebbe difeso, che non aveva nulla da pentirsi «per le tutte le decisioni che ho preso in passato». Dice: «Sono una vittima della Nato. Con me voghono condannare tutta la Serbia». Sono le frasi che ha continuato a ripetere durante tutta la notte del suo trasferimento all'Aja. A Belgrado, prima di salire sull'elicottero, si era fermato e s'era voltato indietro salutando: «Pratelli serbi, addio». E ai poliziotti che lo accompagnavano all'aeroporto, aveva continuato a ripetere: «Avete preso l'uomo sbagliato. L'indirizzo giusto è quello deUa Nato. Sono loro i cattivi. Il tribunale dell'Aja non è una corte di giustizia. E' un circo pohtico messo in piedi per distruggere la nazione serba». Quando arrivò qui, con i polsi stretti dalle manette, forse teneva la faccia così alta perché era convinto che ci fossero le telecamere a riprenderlo. Non c'era nessuno, come gli avevano promesso. Solo Erik Stegeman e sua moghe Joan che s'erano arrampicati sul tetto di casa per lasciare un ricordo a Merel, la figlia. Quando tornò a casa da una festa il padre le disse: «Ho ripreso Milosevic che entra in carcere con le guardie. Ti regalo la cassetta, la farai vedere ai tuoi figli». Il giomo dopo si accorse che quelle immagini non ce le aveva nessuno, neanche i colossi delle tv americane. Allora le ha vendute, peccato per Merel. E i soldi li ha dati in beneficenza. Ma questo, alla Storia, non interessa. Alla Corte temono la peggiore delle beffe Ci sono precedenti familiari: padre, madre e uno zio di Milosevic si sono uccisi L'ex presidente chiama la moglie: «Verrò fuori da questa storia vivo e vegeto». Ripete: sono vittima di un sequestro Manifestazione pro-Mìlosevic: I manifesti dicono «tradimento»

Luoghi citati: Aja, Belgrado, Serbia