Al gattopardo Kibaki le chiavi del Kenya di Domenico Quirico

Al gattopardo Kibaki le chiavi del Kenya FALLISCE IL PROGETTO DI ARAR MOI DI IMPORRE IL SUO DELFINO, L'INCOLORE KENYATTA JR Al gattopardo Kibaki le chiavi del Kenya Il neopresidente, ex ministro del vecchio regime «Ora la mia priorità sarà la lotta alla corruzione» analisi Domenico Quirico IN Costa d'Avorio migliaia di civili terrorizzati fuggono dalle zone dove divampa un'arruffata guerra civile. Dal Congo arriva il grido dei missionari che denunciano, nascoste nel profondo delle foreste, barbarie ancora ignote: prigionieri delle milizie di sgherri che si contendono le miniere costretti a cibarsi di frammenti del proprio corpo prima di essere trucidati. La carestia implacabile e silenziosa avanza nel corno d'Africa rastrellando una lava di milioni di profughi. Eppure, da ieri, c'è un'Africa che ha diritto di esultare. La vittoria dell'opposizione in Kenya ha spazzato via il progetto del padrone, Arap Moi presidente da ventiquattro anni, di trasmettere il potere al suo delfino. In una democrazia è la normalità; in Africa, invece, è quasi una rivoluzione che infonde speranza a chi spera di costruire, dal basso e senza la carità internazionale, l'alfabeto di una nuova politica. Cancellando la pratica di considerare lo Stato, uomini, cose, beni, una indiscussa proprietà. Arap Moi, uno degli ultimi «Big man» che hanno segnato la tragedia dell'Africa indipendente, deve rassegnarsi ad accettare la sua smodata pensione di satrapo. Ora fa sfoggio di stile inglese trasformando la sconfitta in ima medaglia democratica; ma la delusione è stata bruciante, per questo ineguagliabile naviga¬ tore di acque torbide. Il progetto, infatti, era di mantenere intatto il serraglio del potere. Alle spalle dello scolorito figlio di papà, Uhuru Kenyatta, avrebbe conservato nella formaldeide i segreti del comando come presidente del partito-stato, il Kanu. «Moibutu», come lo chiamano i detrattori, ha dovuto capitolare inorridito di fronte alla necessità di non ricorre a brogli per correggere la recalcitrante volontà degli elettori. I vecchi tempi, in Africa, forse sono finiti. Di fronte alla mostruosità del disastro economico, allo spettro della guerra tribale, all'enormità della corruzione restava soltanto il ricorso alla violenza, per ammansire la rabbia della gente. Nel '92 e nel '97 Arap Moi non esitò: il suo trionfo fu costruito su un migliaio di morti e trecentomila sfollati. Questa volta si è arreso. Lascia, però, un'eredità avvelenata che rischia di trasformare la gioia del Kenya in una cocente, e pericolosa, delusione. Il Paese è più povero di vent'anni fa, in bancarotta. Il debito estero si è arrampicato fino a otto miliardi di dollari, oltre metà della popolazione vive con un dollaro al giorno, la soglia che le cautissime statistiche dell'Orni segnano come limite della povertà. Metà dei kenioti è senza lavoro, il turismo, perde colpi. Secondo il rapporto di «Trasparency International», il Kenya è uno dei sei Paesi in vetta alle classifiche della corruzione. Ogni dieci dollari investiti nel Paese meno di due arrivano a destinazione, il resto si incastra tra le unghie di una classe di funzionari e politicanti che si affannano ad accumulare fortune come assicurazione per l'inevitabile disastro. Ogni giorno file di kenioti, ostinatamente pazienti, mendicano dall'anuniiiistrazione certificati e servizi dopò aver versato una piccola somma per ungere la buona volontà del poliziotto o dell'impiegato. Difficile rimproverare questi umili pescecani se si pensa che Arap Moi è stato inserito da «Fortune» nell'elenco dei dieci uomini più ricchi del mondo. Una economia parallela popolata di conti all'estero e di società in appalto a una tribù di parenti e portaborse per cui i beni dello Stato sono soltanto un'appendice di quelli del capoclan. E' un sottosuolo che Mwai Kibaki, il nuovo presidente, conosce bene: perché a lungo, come vicepresidente e poi ministro delle Finanze, giocando a golf e accumulando scellini, ha percorso i corridoi del Palazzo. Nell'88 se n'è andato per fondare il partito democratico, certo non sbattendo la porta. Arap Moi, il padrone, aveva ceduto alla diabolica tentazione di scegliere altri favoriti. Durante la campagna elettorale ha ripetuto come una giaculatoria la parola d'ordine della lotta alla corruzione. «La prima ejnrincipale delle mie priorità sarà affrontare la corruzione - ha ribadito ieri nel tripudio della'vittoria - e cominceremo da noi governanti, rivelando la consistenza dei nostri patrimoni». Non deve guardare molto lontano, Kibaki. Nella coalizione di quattor¬ dici partiti che lo hanno accompagnato verso la presidenza, ci sono personaggi inquietanti: George Saitoi, ad esempio, un ex portaborse di Arap Moi con un passato poco immacolato. Era seduto sulla poltrona'di ministro àeìle Finanze quando un uomo d'affari di origine indiana ricevette l'autorizzazione a rubare seicento milioni di dollari dalle casse dello stato in cambio di finte esportazioni d'oro. Il tribunale anticorruzione promesso da Kibaki avrà molto lavoro. Conferenza stampa del neo presidente del Kenya. Mwai Kibaki è In sedia a rotelle per essersi lussato un'anca e rotto una gamba in un recente incidente stradale