Savinio

Savinio Savinio Un darwiniano metafisico LA MOSTRA DELLA SETTIMANA Marco Vallerà I proprio visitando una E retrospettiva così completa ed articolata quale questa, con passione concertata da due affidabili «amorosi» di Savinio, come Pia Vivarelli e Paolo Baldacci, è proprio aggirandosi furtivi e con un po' di malessere nel labirinto a ragnatela di questi quadri giganteggienti e cedevoli come plastilina, che si comprende quanto il pittore Savinio sia un enigma irresolubile ed «invedibile». Nel senso che è comprensibilissimo, razionalmente e criticamente, grazie ai perspicaci esegeti che arricchiscono anche questo denso catalogo Mazzetta (con ima bella scoperta di Gerd Roos). Ma poi, soprattutto, per via delle pagine lucidissime e taglienti dello stesso Savinio, disamorato di sé stesso e narcisisticamente inappuntabile. Pure, il suo enigma, non lo si può risolvere a livello di sguardo, non lo si può «guardare» LA MODELLA SEMaVa con gli occhi abituali e molli del conoscitore d'arte e del visitatore di mostre. È uno specchio misterioso, che non riflette (evviva) le nostre aspettative. Deve rimanere un enigma e questo è il grande, abissale, disorientante rebus, che ogni volta ci viene incontro, insanato, insensato. La scommessa furibonda del sornione, caustico Savinio, oracolo in pantofole. Bella la pittura di Savinio? (Ma che domanda cretina, avrebbe obiettato lui: pensare ancora alla bellezza, nel pieno del '9001). Dopo i primi quasi-monocromi a dagherrotipo dei tardi Anni Venti, elegantissimi come ghette da sofisticato dada, Savinio decide di «far male», di incanaglirsi, di riempire la sua pittura di forme molli e sgradevoli (pur senza rasentare il molliccio mieloso e visionario di Dalì, che in parte lo emula e che lui non soppor- STRA TIMANA co rà tava) di andare a scuola, lui cosi volterriano e mentale, dal più carnoso e spesso discutibile impressionista, qual era Renoir. Un paradosso, un ossimoro visivo, quasi un dispetto a se stesso. Ma è questo che lui cerca: il malessere ben pasciuto dello sguardo impossibile, da bacchettare. Colori squillanti, industriah, giocattoli viscidi e para-astratti, che si sovrappongono alla scena come macule solari, forme apparentemente primordiali e che si disfano, quasi fonnaggi mal cagliati dell'immaginario. Savinio (da buon discepolo di Nietzsche e dei pittori tardo-romantici, da Boecklin a Klinger) vuol avvertirci che dobbiamo, con «occhi d'insetto» procedere al di là delle maschere, delle forme apparenti, che sono poi figurine d'un mondo Epinal andato in allegro frantume. Perché se non esiste una verità filosofica, univoca, figurarsi se esiste la verità della superficie pittorica! Biso- gna scavare, andare sotto la pelle della vita mutante della pittura, spesso sgradevolmente, ma gassosamente, lebbrosa. Perché, come ci ha insegnato il nicciano Klossowsky, è la tmpe risata degli dei, che forma l'universo. E se Savinio dipinge «als ob», «come se» quel! universo davvero esistesse anche noi non dobbiamo cadere nella trappola, e dobbiamo indossare (come il Coppelius dei Racconti di Hoffmann, da lui scenografati) almeno delle lenti speciali: un quart' occhio, avvertito e «filosofico». Bisogna apprendere a guardare le sue tele con lo sguardo interiore dell'intelligenza e del pensiero interrogante. Non con quello del gusto o della sensibilità ben educata. Lui lo aveva intuito benissimo, quando osservò: «Le opere di Dùrer, di Boecklin, di Giorgio De Chirico, mie, nascono prima di tutto come cose pensate. Portarle a una forma o dipinta o scritta è una traduzione, un'operazione secondaria, a scelta. Volete la riprova? Le opere dei pittori nominati qui, noi stessi le pensiamo: le vediamo nella memoria, che è come pensarle». È vero, proviamo a ricordare un De Pisis o un Monct. Noi lo «vediamo» intatto nei nostri occhi, un Savinio no, lo ripensiamo con le pupille vigili dell'intelligenza, così come è generato: androgino e frigido. Scopertosi «una centrale creativa», «al di sopra delle arti» Savinio sa che non gli è così importante scegliere un'arte, visto che le domina tutte. È vero, è un erede dell'Opera Totale alla Wagner, ma Wagner gli dà fastidio (proprio come a Nietzsche, che alle tante divinità roboanti del Tedesco preferisce il profumo zingaro della sigaraia Carmen). Lui, che pure viene dalla musica seriosa di Max Reger, preferisce sostituire nel cranio di bronzo di Wagner l'essenza gassosa di Rossini. E la vecchia solfa del «dilettante» alla Stendhal, che aborre la noia e il dottorale. Lui muta di arti, «per serbare il mio dilettantismo in stato di freschezza». «Darwiniano metafisico», che coinvolge i pianeti e le ere geologiche, portandole nella casa di mamma come un cagnino randagio, riesce a fondere il gusto avventuroso di Veme con le metamorfosi gelide di Kafka, la musica tellurica di Mahler, con i ballabili da chiosco termale. Per questo non gl'interessa nemmeno la «bellezza convulsiva» di quei «turpi approfittatori della scempiaggine intemazionale», che sono per lui i surrealisti. Che pure lo hanno eletto come padre putativo. Non è un eroe della rivolta, ma un ironista, che desidera «ingentilire i mostri» non «immostmosire la natura». Coprire con delle decalcomanie il gran buco enig-mistico del mondo. «Perché il surrealismo mio non si contenta di rappresentare l'informe e di esprimere l'incosciente, ma vuole dare forma all'informe e coscienza all'incosciente». ALLA FONDAZIONE MAZZOTTA DI MILANO IN VETRINA LE OPERE DI UN IRONISTA CHE DESIDERA CON OCCHI DI INSETTO «INGENTILIRE I MOSTRI» DELL'INCONSCIO -::k^;**i.a «L'annunciazione» di Alberto Savinio, 1932 Alberto Savinio. Milano. Fondazione Mazzetta. Orario 10-19. Chiuso il lunedi. Fino al 2 marzo

Luoghi citati: Milano, Stra