CECENIA La repressione infinita

CECENIA La repressione infinita ELENA BONNERf VEDOVA DEL PREMIO NOBEL PER LA PACE ANDREJ SAKHAROV CECENIA La repressione infinita intervento Elena Bonner LA Dichiarazione universale dei Diritti dell'Uomo nel terzo paragrafo del preambolo enuncia: «E' indispensabile che i diritti dell'uomo siano difesi dal potere della legge così da assicurare che nessuno sia costretto a ricorrere, in ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'asservimento». E l'articolo tre garantisce il diritto alla vita. Come rileggere la storia della Cecenia alla luce di questi diritti? Nel Dizionario enciclopedico sovietico del 1980 si dice: «Nel 1810 l'Inguscezia si è riunita spontaneamente alla Russia. Ne 1859 la Cecenia è stata riannessa». Ma quale realtà si nasconde dietro queste due date distanti tra loro 50 anni? Un mare di sangue. Il «Valerik» di Dostoevskij e il «Chadzi-Murat» di Tolstoj. Le vittorie delle armate russe, simili a quella riportata da Suvorov all'imperatrice Caterina: «Ringraziando Dio la vicenda si è conclusa con un successo; solamente, ecco, tutti i ceceni sono stati uccisi». A seguire qualche citazione di documenti desecretati all'inizio degli Anni 90 e poi, temo, di nuovo secretati. 1922: «In Cecenia è in corso un combattimento all'ultimo sangue per il potere condotto in nome della liberazione nazionale e della religione... In relazione a questi avvenimenti la direzione del partito locale ha preparato un piano operativo di disarmo della popolazione della regione autonoma della Cecenia con l'aiuto del comando militare del Caucaso del Nord». 1925: «Rapporto del comando militare del Caucaso del Nord sull'operazione di disarmo in Cecenia»: «L'operazione si è fondata sul disarmo accelerato... delle regio¬ ni più favorevoli ai banditi, con il ricorso massiccio alla repressione... Un gruppo ha circondato il villaggio di Achkoi... ha aperto il fuoco sul villaggio di Zumsoja grazie all'artiglieria e agli aerei. Il gruppo si è avvicinato al villaggio di Kela, ha aperto il fuoco, gli aerei hanno bombardato Nakhchu-Kelo... Per sottomettere Urus Martan sono occorsi 900 tiri d'artiglieria e bombardamenti aerei. Si è riusciti a prendere in ostaggio circa 300 banditi...» Questa forma di «persuasione» proseguì anche negli Anni 30. Il 31 gennaio 1944 una risoluzione del Comitato di Stato per la difesa decise «la deportazione di tutta la popolazione della CecenoInguscezia in Kazakhstan e in Kirghizistan». Tutta la popolazione, bambini, dorme e vecchi compresi. Gli uomini in età di leva erano al fronte. Il 24 febbraio, nel giro di 24 ore, oltre mezzo milione di persone vennero caricate su treni merci e condotte attraverso tutto il Paese verso la deportazione. Durante il viaggio oltre un terzo dei passeggeri morì. E il 7 marzo 1944 ecco un decreto del Presidium del Soviet Supremo dell'Urss sulla liquidazione della repubblica ceceno-inguscia. La decisione è perfettamente nello spirito dei tempi: «Nessun popolo, nessun problema». Oggi c'è di nuovo una guerra in atto, non quella della Russia imperiale o dell'Unione Sovietica staliniana, ma quella della nuova Russia democratica. Questa nuova Russia ha solo undici anni, ma la guerra in Cecenia dura già da otto. In modo del tutto arbitrario si distinguono due guerre. La prima è stata intrapresa da Eltsin sperando in una piccola sortita vittoriosa che gli avrebbe fruttato un nuovo mandato presidenziale. Non vinse la guerra ma le elezioni sì. La seconda è stata apparentemente la risposta russa all'invasione del Daghestan da parte dei gruppi ceceni più estremisti. Una risposta anche, è stato spiegato, agli attentati contro i palazzi abitati da civili del settembre 1999, i cui responsabUi non sono mai stati identificati. Questi fatti hanno regalato a Putin una vittoria eclatante alle elezioni e inflitto nuove prove, ancora più crudeli, a tutta la popolazione cecena. Ma di fatto è sempre la stessa guerra. Quella di Suvorov, di Ermolov, di Lenin, di Stalin, di Eltsin e, oggi, di Putin. E' la stessa geografia. Sono gli stessi villaggi di Achkoi Martan e Shali. Gli stessi bombardamenti e i medesimi tiri d'artigheria. La stessa «repressione massiccia» da parte dei russi. L'unica differenza è che la lingua russa si è arricchita di un nuovo vocabolo. Non si parla più di «far sparire un popolo» ma di «fare pulizia». Con la presa degli ostaggi al teatro Dubrovka di Mosca è cominciata una nuova fase di questa lotta senza fine. Certo, non c'è giustificazione per l'atto di terrorismo compiuto. Ma il modo in cui si è proceduto per liberare gli ostaggi e il mistero che circonda l'operazione suscitano molte domande senza risposta che si possono riassumere in una: che cosa è più importante per il potere, salvare le persone o vendicarsi dei banditi? L'azione ha fatto apparire in tutta la sua evidenza la totale assenza di una volontà di pace da parte del potere russo e la sua cinica strumentalizzazione di una tragedia a un tempo nazionale e personale (per chi l'ha sofferta) allo scopo di segnare un punto a proprio favore nella guerra, già di per sé crudele, condotta contro i ceceni. Lo scontro è diventato totale, apertamente etnico. AI punto che tutti i ceceni hanno il diritto di domandarsi se ci sia posto per loro a questo mondo. Il potere russo è abituato a mentire al suo popolo. Ora questa esperienza, sotto l'etichetta della lotta al ten-orismo internazionale, è stata esportata nelle democrazie occidentali. E' in questo contesto che bisogna inquadrare la vicenda di Akhmed Zakaev, vice primo ministro della repubblica cecena e braccio destro del presidente Aslan Maskhadov, per il quale ieri è stata rifiutata l'estradizione chiesta da Mosca. Se le autorità danesi avessero dato ragione ai russi, questa vicenda avrebbe di gran lunga oltrepassato il destino di un solo uomo. Sarebbe diventato il destino dell'intero popolo ceceno, che ha già raggiunto un tale livello di disperazione da chiedere al presidente del Kazakhstan di poter tornare nei luoghi della deportazione staliniana. Formalmente la vicenda dell'estradizione di Zakaev sembrava curiosa. E' stato amnistiato nel 1997, ha condotto trattative con i militari russi e ha partecipato a incontri ufficiali. Ma la richiesta di estradizione ha suscitato l'impressione che, dopo la tragedia del teatro di Mosca, gli addetti all'ordine costituito russo abbiano individuato senza prove in Zakaev il «Responsabile» di tutto: dell'ingresso di 50 uomini armati nella capitale russa, dei loro stessi errori che hanno portato alla morte di 136 ostaggi (secondo altre fonti di 200), del fatto che le truppe russe abbiano ucciso i banditi (incluse le donne kamikaze prive di sensi) invece di portarli davanti a un tribunale. La domanda di estradizione di Zakaev indubbiamente è stata presentata per ordine del potere esecutivo russo. Ecco perché due circostanze importanti, che rappresentavano un impedimento ostativo all'estradizione da qualsiasi Paese dell'Unione europea, sono state ignorate: in primo luogo il fatto che la pena di morte non è stata abolita in Russia ma solamente sospesa e la Duma può ripristinarla in qualsiasi momento; in secondo luogo il latto che in Russia, in qualsiasi stazione di polizia, in qualsiasi luogo di detenzione, la tortura sia prassi quotidiana. Centinaia se non migliaia di episodi sono stati denunciati negli ultimi anni da Amnesty International e da altre organizzazioni umanitarie. La giustizia danese ha preso la decisione corretta, dimostrando di essere libera da pressioni politiche e ribadendo l'indipendenza della giustizia nei Paesi europei democratici. Sono gli stessi danesi che, nel 1939, in risposta alle pressioni della Germania hitleriana, presero a sfoggiare la stella gialla che «marchiava» gli ebrei. «Il potere russo è abituato a mentire al suo popolo. Ora sotto l'etichetta della lotta al terrorismo questa esperienza è stata esportata nelle democrazie occidentali Se nel caso Za kaev le autorità di Copenaghen avessero dato ragione a Putin si sarebbe compiuto il destino di un popolo» «La guerra oggi in atto non è quella della Russia imperiale né dell'Unione Sovietica staliniana, ma quella della nuova Russia democratica che ha solo undici anni ma combatte già da otto Unica differenza: non si parla più di "far sparire un popolo" ma piuttosto di "fare pulizia"» Elena Bonner, moglie del fisico dissidente Andrej Sakharov Le rovine del palazzo presidenziale di Grozny, divenute un simbolo della guerra di Cecenia