«Finiti in mezzo a un'assurda burocrazia da film dell'orrore» di Fulvio Milone

«Finiti in mezzo a un'assurda burocrazia da film dell'orrore» I RICORDI DEI RAGAZZI: CORRIDOI STRETTI, LUCI ALIENANTI, SECONDINI APATICI «Finiti in mezzo a un'assurda burocrazia da film dell'orrore» Gli attiviSti; Per la minima neCeSSità Una «dOmandina» da COmpilare retroscena Fulvio Milone COSENZA RICORDA i corridoi lunghi, interminabili, opprimenti. E poi la cella, stretta, con il water e il lavandino accanto alla branda fissata al pavimento. Ricorda tutto questo, e dice che la galera è un veleno che non perdona: «Uccide l'intelligenza e la fantasia, spegne ogni voglia di vivere». La notte del 15 novembre il «sovversivo» Antonino Campennì, 37 anni, ricercatore del dipartimento di sociologia dell'Università della Calabria ed esponente dei movimenti antagonisti fra i più attivi a Cosenza, stava rincasando dopo una lunga riunione con i redattori della rivista «Dedalus», con cui collabora. All'una e venti, davanti al portone dèlia sua casa di Rende, a pochi chilometri dal capoluogo, trovò ad attenderlo trenta poliziotti. Erano lì per arrestarlo, anche lui era un «sovversivo» come gli altri diciannove «disobbedienti» della «Lega meridionale per il sud ribelle», tutti accusati di associazione sovversiva dalla procura della repubblica di Cosenza. Campennì, quella notte, ebbe paura, e poco o niente lo tranquillizzarono i volti noti di alcuni agenti: «Li vedevo sempre alle manifestazioni, non dico che eravamo diventati amici, ma fra noi si era creata una certa familiarità». Furono gentili, gli uomini della questura, ma un arresto è sempre, inevitabilmente, un atto di violenza. «Sì, avevo paura quando ho varcato la soglia del supercarcere di Trani. Con tutto quello che hanno significato in passato quelle mura... Supercarcere, Brigate Rosse... Credo che la scelta di Trani come luogo per la nostra detenzione non sia stata casuale: rientrava nel teorema formulato dai nostri accusatori. E' come se avessero voluto dire all'opinione pubblica: li mandiamo lì perché anche loro sono terroristi». Campennì dice di essersi sentito perso in quella gigantesca tomba di cemento. «Attraversavo corridoi lunghi e tetri: un cunicolo terminava con un cancello e subito dopo ne cominciava un altro. E poi, la cella: una stanza larga due metri e lunga quattro, con la branda fissata al pavimen¬ to, il cesso e un minuscolo lavandino, un tavolo e uno sgabello. Le pareti erano di un azzurro sbiadito dal tempo, corroso da anni di incuria. Se dovessi definire quell' ambiente non userei la parola orrore. Me ne vengono in mente altre due, sicuramente peggiori: morte cerebrale». Fu così che il «sovversivo» Antonino Campennì cominciò a sentirsi come un bambino in balìa di forze troppo grandi per lui. «Nel carcere sei un essere soffocato dall'indifferenza. Gli agenti di custodia sono piuttosto gentili, ma è evidente che di te non gliene frega assolutamente nulla: indifferenti, apatici, nauseati da un lavoro che, se potessero, lascerebbero immediatamente. E, naturalmente, sono praticanti di quell'autentico rito religioso che è la «domandina». Esiste un modulo per ottenere qualsiasi cosa ti serva: tu lo compili e aspetti non sai quanto. Un esempio? Ero raffreddato, avevo bisogno di un pacchetto di fazzolettini per soffiarmi il naso. «Lo vuoi davvero? Fai una domandina», dicevano le guardie. I fazzolettini sarebbero arrivati per vie burocratiche dopo una settimana. Ma io sono stato fortunato: una brava monaca, suor Vincenzina, mi ha regalato i suoi. C'è gente che ha dovuto attendere giorni prima di avere carta e penna, per non parlare dei quotidiani che dietro le sbarre valgono oro. Un mio compagno, Francesco Cirillo, anche lui arrestato il 15 novembre, ha dovuto fare un bel casino perché gli ridessero gli occhiali sequestrati dalla polizia». Paradossalmente, il «sovversivo» Campennì intravide un barlume di speranza leggendo l'atto d'accusa contro di lui: «Scorrendo le pagine dell'ordinanza di custodia cautelare mi resi conto che su di me e sui miei compagni non c'era nulla di concreto: solo una montagna di supposizioni. Se è così, pensai, ne esco presto». I giorni trascorsero lenti, fra una «domandina» e l'altra, fino a quando giunse il giorno dell'interrogatorio. «Erano trascorsi nove giorni dal mio arresto quando mi trovai davanti al gip Nadia Plastina, che aveva ordinato la mia cattura. Che idea mi sono fatto di lei? Mi accorsi che il giudice non era al corrente di fatti importanti che avrebbero potuto scagionarmi. Lei, che mi aveva accusato di essere uno degli ispiratori degli scontri avvenuti durante il Global Forum a Napoli, non sapeva che per i magistrati di quella città io sono parte lesa, testimone e vittima delle violenze commesse dai poliziotti che dopo gli scontri in piazza ci trascinarono nella caserma Raniero per pestarci. Non sapeva, il gip, che quelle violenze io le ho raccontate a mezzo mondo, esponendomi in prima persona, con nome e cognome, con interviste ai telegiornali. Sono andato perfino da Bruno Vespa. Ho detto al giudice che l'organizzazione sovversiva di cui parla nell'ordinanza ha sempre agito alla luce del sole, con pubbliche manifestazioni e assemblee aperte. Ho spiegato che la violenza l'ho sempre ripudiata». Dopo quell'interrogatorio, Antonino Campennì ha ottenuto gli arresti domiciliari. Ma da ieri anche lui è un uomo libero. Antonino Campennì: «E pensare che sono andato anche da Vespa a denunciare le violenze avvenute a Napoli»

Luoghi citati: Calabria, Cosenza, Napoli, Rende, Trani