«Cosa nostra voleva fondare un partito I politici? Gente viscida, ma necessaria» di Francesco La Licata

«Cosa nostra voleva fondare un partito I politici? Gente viscida, ma necessaria» LA TESTIMONIANZA DI «MANUZZA» «Cosa nostra voleva fondare un partito I politici? Gente viscida, ma necessaria» «Madonia accarezzava l'utopia di riunire tutti gli uomini d'onore» i verbali Francesco La Licata inviato a PALERMO SEMBRA di vederli, come in un film del postneorealismo, i camion carichi di donne, vecchi, poveri contadini, che - raccolti casa per casa dalle campagne siciliane - vengono portati in massa ai seggi elettorali. E i caporali della mafia che devono intimorirli e contemporaneamente rassicurarli sul futuro, e ancora evitare che entrino in contatto con esponenti di altri partiti che non siano democristiani. E i sindaci dei paesi, grandi e piccoli, a raccordarsi coi ((picciotti», per l'occasione elettorale nei panni di galoppini è agitatori. No, non è un bianco e nero di Francesco Rosi: è il racconto del pentito Nino Giuffrè che, così, descrive e spiega con la semplicità della storia vissuta, l'abbraccio e l'origine, quasi naturale, della (dove story» tra mafia e politica. Dice, in sostanza, il collaboratore che l'importanza che Cosa nostra dava alla politica «si capiva benissimo e la si vedeva nelle riunioni alle quali potevano partecipare l'arciprete e il boss». Ecco, per Giuffrè «manuzza», questo idillio alimentato da capimafia, politicanti e imprenditori non avrebbe bisogno neppure di essere spiegato, perchè «è nelle cose di Cosa nostra». Il suo, è un lungo racconto il cui senso i magistrati impegnati nell'accusa di mafia contro il sen. Giulio Andreottì vorrebbero far confluire nel processo d'appello die si appresta alla conclusione. Quasi ima guida per una sorta di moviola che possa riproporre le alterne fasi di odio e amore tra la cupola e le segreterie dei partiti. Non sono mai stati amati, i politici, dal popolo di Cosa nostra. «Persone equivoche - dice «manuzza» viscide, che fanno uri pochino il doppio gioco». E, una volta saziata la propia fame di voti, disposti persino al mono di «miserabili», «pavidi». Non tutti erano (e sono) come il sen. Calogero Volpe die «combatteva per gli interessi di Cosa nostra. Per questo Piddu Madonia accarezzava T utopia" di formare un partito tutti di uomini d'onore». Un'utopia inseguita, molti anni dopo, da Luchino Bagarella con la sua «Sicilia libera». Una utopia «impossibile» perché la mafia non può trasfonnarsi in parti¬ to con una vita pubblica. E Andreottì? Giuffrè dà un quadro d'insieme e in sostanza - anche se alquanto alla lontana - funge da conferma all'impianto accusatorio che colloca il senatore a vita a Roma, come terminale di contatti provenienti dalla Sicilia ogni volta che la mafia ne sentiva la necessità. C'erano gli ambasdatori che avevano l'incarico di tenere i contatti. Nomi? Innanzitutto Nino Salvo, l'esattore potente amico di Lima. E il principe di San Vincenzo, Vanni Calvello. Ma c'era anche Gioia. Giovanni, il senatore fanfaniano? Sì, forse, no, probabilmente il fratello, l'avvocato Luigi. Il quale «era solito incontrare Michele Greco» quando latitava nei casolari di Caccamo, territorio di Giuffrè. Bei tempi, con don Michele a Favarella, il figlio regista e tanti ((ragazzi» a far festa per il film di Giuseppe e (d'attrici finunina» Barbara Bouchet protagonista della serata (((non fatemi entrare nei particolari», commenta Giuffrè). Con quale compito si muovevano gli ambasdatori? «Con quello di interessarsi in alto loco, intendo riferirmi su Roma, perchè aiutassero a superare, doè a cambiare le cose che si mettevano male». Ovviamente il ((tormentone» che affligge lorsignori è sempre stato il problema del carcere e della giustizia. Dice Giuffrè: «Un pochino di galera si sapeva che dovevamo sopportarlo». Ma solo un pochino, non certo gli ergastoli piovuti col maxiprocesso. Ma Lima e gli altri parlavano con Andreottì? Su questo non v'è certezza, ma il nitido ricordo di come il popolo di Cosa nostra, attraverso gli ambasciatori (tra questi anche l'ex sindaco Vito Ciancimino investito del ruolo nel periodo «provenzaniano»), ricevesse asserite tranquilizzazioni dal ((gobbo». Già, questo tipo di confidenze - assicura Giuffrè - si permettevano gli ambasdatori. Addirittura un Ciancimino che riesce ad imporre più d'un incontro al politico che entrava ed usciva da palazzo Chigi. Era difficile il rapporto tra i corleonesi e Andreottì. Riina non lo ama¬ va. Giuffrè: ((Andreottì, non so se posso usare sta frase, si fa la verginità a discapito nostro facendo dei decreti apposta per mandare dentro quelli agli arresti domiciliari». Siano alla crisi con la de, per dirla con la ricostruzione di «manuzza». Falcone a Roma, Andreottì premier e Martelli alla Giustizia. Eccolo, Martelli. Secondo Giuffrè, che conferma noti- zie datate, Cosa nostra landa un avvertimento alla de e, nel 1987, dirotta i voti verso il psi. La «chicca» che «manuzza» aggiunge è un giudizio di inaffidabilità per il delfino di Craxi, ((per un fatto ben predso che era un drogato». E quando i magistrati della procura dì Palermo fanno notare al pentito che gli spinelli (la storia di Malindi ndr) trovati dalla polizia africana appartenevano ad un altro della comitiva di italiani fermati in aeroporto, Giuffrè replica: «Ma noi non d credevamo a questo, giustamente». Insomma, questo Martelli ai mafiosi sembrava inaffidabile, tanto che dopo la «sbandata» dell'87 si toma ai vecchi amori, alla de. E, aggiunge Giuffrè, Cosa nostra tenta la carta di Mario D'Acquisto, ancorami andreottiano. Tutto ciò mentre l'ala oltranzista sì imbarca nella disastrosa avventura stragista, dopo aver fatto fuori Giovanni Falcone perché dell'operato del giudice «era responsabile Totò Riina, perché Falcone era palermitano». Insomma il magistrato era un problema che Riina doveva risolvere, «agli occhi delle altre persone, amid nostri, calabresi, napoletani e, in modo particolare, nei confronti della mafia americana. Ma la guerra privata dei corleonesi inteirompe i vecchi rapporti e ne mette in cantiere altri. Parola di Giuffrè: «L'elezione di Rino Nicolosi alla Regione siciliana è frutto di un accordo generale tra Palermo e Catania», mentre di Calogero Mannino Rima diceva: «Chistu è cchiù cumutu di l'avutru», paragonandolo al discorso della «verginità di Andreotti». E d fu un momento in cui (d catanesi» contavano e si alzarono le quotazioni di Salvo Andò. La storia recente, il dopo stragi e la ricerca della ((pacificazione» attraverso la via parlamentare all'abbattimento delle leggi scomode, è un capitolo àncora medito. «Un po' di galera sapevamo che dovevamo farla, ma non gli ergastoli del maxiprocesso Da noi venivano anche "attrici f immine" famose» «Abbiamo avuto una sbandata verso il Psi, quando il partito aveva il ministero della Giustizia, ma si dimostrarono inaffidabili»

Luoghi citati: Catania, Lima, Palermo, Roma, Sicilia