Andreotti: contro di me il gioco delle tre carte di Federico Geremicca

Andreotti: contro di me il gioco delle tre carte LA GIORNATA DELL'EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO. TRA TELEFONATE DI SOLIDARIETÀ' E INCONTRI CON I LEGALI Andreotti: contro di me il gioco delle tre carte «Da Ciampi una chiamata significativa. Sono sereno perché credo nell'aldilà» personaggio Federico Geremicca ROMA PASSETTI brevi, ravvicinati. Il loden grigio e la tradizionale sciarpa bianca. La solita cartellina e im po' di fogli tenuti incollati al petto col braccio destro. La bocca che disegna l'inconfondibile fessura. E' mattina presto quando il Condannato si mostra sul portone di casa, lì a trecento metri da San Pietro, mentre una pioggia sottile e fangosa tira giù l'ultima sabbia africana portata quassù da tre giorni di scirocco. E' inutile. Realmente inutile. Lo guardi ed è tutto precisamente come prima. A scrutare i volti di chi gli è intomo, potresti perfino esser tratto in inganno e pensare che sia il suo fido autista è non lui, Giubo Andreotti, il Condannato. Invece, dall'imbrunire della sua domenica più nera, tocca proprio a lui - e non ad altri - un non invidiabile e forse non eguagliabile primato: essere il primo ex capo di governo del mondo occidentale a finire condannato per omicidio. La cronaca che segue, dunque, è null'altro che il racconto di un giorno anomalo, triste ma solo a tratti rancoroso. Un giorno che comincia alla solita maniera (la messa nella chiesa cinquecentesca di San Giovanni dei Fiorentini) e finisce in una maniera sempre più solita, nello studio tv di Bruno Vespa. Dove Andreotti, con evidente soddisfazione, alla fine rivelerà: «Sono particolarmente lieto sia per la dichiarazione del presidente Ciampi dell'altra sera, sia per la telefonata che mi ha fatto questa mattina, per me particolarmente significativa». E allora, ecco il Condannato, con loden, sciarpa e tutto il resto. «Io continuo a mantenere fede nella giustizia - dice senza apparente sforzo ai cronisti che lo attendono sotto casa -. Ho sempre fatto così, questo è il mio costume: ma di fronte a una decisione come quella di Perugia, certo sono sconcertato». Fa una pausa e tu ti aspetti che arrivi, finalmente, l'esplosione. Invece si limita ad annotare: «E' uno strano omicidio, quello per cui mi hanno condannato: non si sa, non si trova, chi l'ha compiuto; scompare l'associazione che si era ipotizzata tra mafia e banda della Magliana e sulla scena restiamo solo io e quel signore che sta lì, nel New Jersey». Giulio Andreotti fa un mezzo passettino indietro, che è il suo sistema per dire che il colloquio si è concluso. Poi ci ripensa e spiega: «Pazienza, starò ad aspettare. Io ai tempi lunghi ci sono abituato, visto che sono 10 anni che sto in mezzo a queste storie. Però ho 84 anni e non ho spazi di prospettiva illimitati». Lo sportello dell'auto si chiude, la vettura si fa spazio nel traffico di questa mattina piovosa e buia, la meta - ora - è l'ufficio di Palazzo Giustiniani. Ad attendere il Condannato un mucchio di telegrammi, decine di telefonate (ima, come visto, graditissima) e quella Giulia Bongiomo che è di certo il più tosto dei suoi avvocati: «Stanotte non ho chiuso occhio, questa vicenda è surreale. Un fatto del genere non era possibile, invece è accaduto». Saranno le dieci e mezza del mattino e ad aspettare Andreotti c'è un antico compagno di sventura, dritto in piedi lì, nella stanza della segreteria. Claudio Vitalone ha un impermeabile bianco e la faccia come un cencio. Lui assolto e Andreotti condannato, lì a Perugia: «Dovrebbe urlare il presidente, ribellarsi, protestare». Non è l'unico a pensarla così. Tre piani più in alto, nel suo ufficio di ex presi- dente del Senato, Nicola Mancino - per motivi magari diversi ragiona come Claudio Vitalone. «Quella di Perugia è una sentenza sconvolgente - dice -. L'ho affermato e lo ripeto. E non mi vengano a dire che le sentenze non si commentano, perché se me lo dicono io rispondo: dipende dalle sentenze. E quella di,. Perugia è una sentenza che riscrive l'intera storia repubblicana». Ognuno lo dice a modo suo, in questo lunedì del Condannato. Mancino con garbo. Il ministro Matteoli con sarcasmo: «O siamo stati governati per cihquant'anni da un disonesto, oppure in questa sentenza c'è qualcosa che non va». L'ex poliziotto Bruno Contrada (prima condannato e poi assolto per mafia) col furore che gli resta: «Andreotti ha il dovere di protestare. L'offesa è agli italiani, non solo a lui. Non è ammissibile che qualcuno dica "in nome del popolo italiano" che siamo stati governati per decenni da un tizio che commissionava omicidi in combutta con la mafia». E se proprio' volete saperlo, non sono solo Mancino, Matteoli e Contrada a invitare Andreotti alla battaglia. Tra i consigheri di guerra c'è anche lui, sì. Paolo Cirino Pomicino, il pupillo e il delfino del tempo che fu: «Non mi convince questa linea morbida, affatto. Qui, con un sette volte presidente del Consiglio condannato per omicidio e con l'attuale capo del governo sotto . processo, stiamo dando al paese un profilo sudamericano. Se siamo a questo punto, la colpa è anche sua, di Giulio. Infatti, ho sentito Giulia Bongiomo, l'avvocatessa, e mi ha detto: "Ora dobbiamo fare la guerra, appena posso la chiamo"...». Le ore di Palazzo Giustiniani volano via in fretta. Andreotti lascia l'ufficio per tomare dalla moglie Livia, dai figli e dai nipoti. Grazie a Ciampi, l'umore è migliorato: «Quando studiavo pensavo di fare il magistrato - confida al drappello di cronisti in perenne attesa -. Tutto sommato, ringrazio Dio di aver fatto un'altra cosa, perché ve- do che è un lavoro in cui si possono prendere cantonate incredibili...». E dunque, presidente? «Bisogna seguire la strada della giustizia e continuare. La salute mi funziona abbastanza e questa mattina il medico mi ha trovato la pressione giusta, cosa che da qualche tempo non accadeva. Su questo, chi mi vuol male non può farci niente: e infatti io, quando mi hanno dato le attenuanti generiche perché ho 84 anni e non potevano mettermi all'ergastolo, l'ho preso come un augurio...». Poi, a qualcuno che gli chiede come faccia a conservare tanta, inaudita flemma, il Condannato risponde con una ovvia constatazione: «Alla mia età non si diventa anarchici all'improvviso. Sì, il sistema giudiziario è quello che è, ha degli aspetti negativi, ma guai a sfasciarlo». Intanto, dentro e intorno Roma, vengono allo scoperto figure e simboli di cinquant'anni di mondo andreottiano. Ecco l'Osservatore Romano: «La sconcertante sentenza di Perugia non può che essere respinta dal buon senso». Ecco Alberto Sordi, che lo volle nel famoso "Il tassinaro": «Andreotti mandante di un omicidio? Nun ce credo manco se lo vedo. La sentenza è assurda». Ed ecco i 250 vescovi italiani riuniti nel- la "Casa del Pellegrino" di Collevalenza applaudire convinti il cardinal Ruini che ritiene «giusto e doveroso confermare pubblicamente intatta stima personale» nei confronti del presidente Andreotti. Se proprio dovessimo dire, l'unica fucilata al Condannato arriva dall'uomo che lo aveva eletto, già dieci anni fa, a simbolo di ogni male. Spiccio e dritto come sempre, Umberto Bossi annota: «Non so niente di questa condanna, ma Andreotti è un uomo che appartiene al passato, quando comandava la De che contribuì a disastrare il Paese». Un'ora di siesta, qualche altra telefonata e poi il Condannato è pronto per un nuovo passaggio a Palazzo Giustiniani e quindi per filare in tv da Vespa. Ma qui, lì, nei vicoli che attraversa e nelle scale che sale è un continuo brulicare di telecamere e taccuini. Signor presidente, e dopo la condanna di Perugia andrà in egual modo anche al processo per mafia giù a Palermo? «Beh, spero di no. Sono due cose diverse e penso che a Palermo conoscano le cose un po' meglio di quanto possa conoscerle - senza offesa per nessuno - la giuria popolare». E a chi tenta di provocarlo dicendo che i tempi e l'epilogo del suo processo son lì a dimostrare che la giustizia non funziona, il Condannato - forse memore dell'altra sentenza che lo aspetta - sussurra: «Sì, ci sono dei problemi e se ne sta discutendo. Quel che è importante, però, è stare attenti a non fare mai muro contro muro, perché questo non aiuta nessuno». E finalmente le luci e lo studio tv di Bruno Vespa. E' qui, e solo qui, che il Condannato richiama a sé l'energia che resta e tenta un qualche affondo: la testimonianza di Tommaso Buscetta, accusa, fu condizionata. «L'avvocato Coppi, nel 1996, chiese a Buscetta: "Lei ha incontrato qualche magistrato in questi giorni?". Buscetta disse di sì, di averne incontrati. Parlò di due persone, disse che non si ricordava... Poi lo riconobbe e disse "eccolo lì, è quello con gli occhiali". Si trattava del dottor Cardella, procuratore della Repubblica di Perugia, che il giomo precedente aveva incontrato Buscetta assieme ad uno dei procuratori di Palermo. Lo voglio dire perché c'è un suggerimento, e credo non sia legittimo». Poi denuncia una sorta di «gioco delle tre carte» ai suoi danni. E infine chiude in purissimo stile andreottiano: «Io credo nell'altro mondo, lì spero di avere giustizia. Non sono stato un angioletto, potrò esser punito per tante cose ma sicuramente non per la mafia e non per PecoreUi». Ecco, ora le luci si spengono, Bruno Vespa lo saluta. E' notte fonda onnai. Il Condannato ritoma a casa. «lo volevo fare il giudice Per fortuna ho cambiato mestiere. Vedo infatti che si possono prendere cantonate incredibili Stanotte non ho dormito ma il medico mi ha trovato dopo settimane la pressione a posto» «Alla mia età non si diventa anarchici all'improvviso. Sì, il sistema giudiziario è quello che è, ha degli aspetti negativi, ma guai a sfasciarlo» II senatore a vita Giulio Andreotti non ha perso flemma e ironia: «Scompare l'associazione che si era ipotizzata tra mafia e banda della Magliana e sulla scena restiamo solo io e quel signore che sta li, nei New Jersey»