Io sono torinese

Io sono torinese Io sono torinese ABITUALE collaboratola di Giuseppe De Santis, lo .-.''«niii a Torino nell'autimno del 1947 penm incontro col patron-ombra della Lux Film, Riccardo Gualino, e per i primi sopralluoghi in area piemontese (risaie, cascinali e così via), passo essenziale per l'ideazione stessa e l'impostazione del progetto «Riso amaro». La sede operativa della Lux era fpà da qualche anno a Roma. La capitale era divenuta - dopo la crescita della Cines e la nascita di Cinecittà - l'erede naturale della pionieristica cinematografia torinese. La sede romana della Lux era abilmente pilotata da altri due operatori piemontesi: il figlio di Gualino, cultore d'arte e mecenate, e l'ingegner Guido M. Gatti, raffinatissimo musicologo ma anche esperto manager. Da Roma era stato offerto a De Santis, subito dopo il successo di «Caccia tragica» alla Mostra di Venezia (agosto 1947), un contratto «in bianco» per un film di suo piacimento. De Santis, ciociaro, sensibile per natura alla realtà del mondo contadino del Mezzogiorno, ma affascinato anche dalle immagini «padane» di cui si era nutrito stando accanto a Visconti in «Ossessione» e girando il suo «Caccia tragica», aveva subito proposto alla Lux di portare sullo schermo la coralità femminile della risaia. Lo aveva confortato nel progetto un altro grande manager-intellettuale del cinema italiano di allora: Libero Solaroli. Organizzatore di «Caccia tragica», durante le pause di lavorazione ci citava a memoria passi di Proust che aveva già letto tutto in francese e, con altrettanta disinvoltura, si occupava di contratti, comparse e così via (ne avessimo oggi - alle nostre spalle e a quelle di tanti colleghi più giovani - di personaggi come Guali- no, Gatti, Solaroli!). Avuto il placet, a Torino, dal grande patron Gualino, la prima persona che volemmo incontrare fu Cesare Pavese. Per noi era già un mito, come lo erano i nomi di Vittorini e - da tempo quelli dei grandi degli anni Venti e Trenta: Moravia, Montale, Alvaro, Ungaretti. E leggenda che la forza del cinema neorealista derivasse tutta dal coraggio col quale un gruppo di autori, rovesciando la retorica di un ventennio, si erano dati nello scoprire un'Italia diversa, drammatica, lacerata da conflitti sociah irrisolti fin dal Risorgimento. Il neorealismo non fu solo una rivoluzione di contenuti, ma anche di linguaggio. Quell'Italia del dopoguerra fu vista con un'ottica che si era nutrita di tanti classici del cinema, ma anche ài tanta cultura europea o americana, e non dimenticava la grande lezione della pittura metafisica, della Scuola Romana, del surrealismo. Per questo ci fu naturale, prima ancora di andare a scoprire le risaie, ascoltare una voce del Piemonte che per noi era già mito. Ricordo due lunghe passeggiate sotto i portici di via Po, affascinati, io e De Santis, dall'eloquio di Pavese, a volte enigmatico, e rispettosi anche di certi suoi silenzi. Ci sedusse anche la sua curiosità per il nostro lavoro, il suo apprezzamento per il cinema neorealista di cui mi pare avesse intuito il carattere non naturalistico.La sua curiosità lo avrebbe portato, qualche mese dopo, sul set di «Riso amaro». Un set «galeotto», dove incontrò le sorelle Dawling e dove ebbe inizio quel percorso tragico che tutti conosciamo. Sempre in quella prima fase di ricerche sul campo, il nostro Virgilio fu Raf Vallone, allora giornalista dell'Unità, consigliatoci da Lajolo (e da noi scelto più tardi come coprotagonistadelfilm). Più personale fu poi la mia esperienza diretta di lavoro a Torino, quella del film «Esterinà» (1959) che laureò la Gravina come attrice di grande spessore drammatico e che promosse a star anche cinematografica - ma con meno fortuna Modugno, numero uno, allora, della canzone italiana. La sua popolarità era alle stelle. Ricordo che per certe riprese, nel centro di Torino, dovevamo proteggerci dai curiosi e dai fan con i cordoni della polizia. Ma, pur essendo anche un ottimo attore, la fortuna in campo cinematografico non lo avrebbe accompagnato. Poco più di dieci anni dopo girai «Torino nera». Un film modesto e di maniera che però offre, più di tanti film girati a Torino, un catalogo di immagini forse preziose, un domani, per studiasi efi urbanistica, di costume. Un documento d'epoca, insomma. Negli ultimi tempi altri tre eventi hanno rafforzato i miei legami con Torino: l'esperienza nel comitato scientifico del Museo Nazionale del Cinema (dove ho girato una parte essenziale del mio «ritratto» di Rossellini); la laurea honoris causa in Scienze delle Comunicazioni, conferitami dall'Università; e infine il soggiorno per una gran parte delle riprese di «Maria José, l'ultima regina». Lavoro molto facilitato dall'appoggio intelligente e fattivo della Film Commission di Torino. Non mi resta ora che svelarvi un segreto: nelle mie vene scorre sangue piemontese. Mia madre. Bianca Gatti, nasce a Roma nel 1883, ma il padre è un Gatti di Torino, garibaldino e, dalla fine degli Anni Settanta del XIX secolo, funzionario del Regno nella capitale. Cario Lizzani