La nuova Turchia di Erdogan fra orgoglio e ambizioni europee di Aldo Cazzullo

La nuova Turchia di Erdogan fra orgoglio e ambizioni europee ILTRIONFO DEL LEADER ISLAMICO CHE (PER ORA) NON PUÒ' DIVENTARE PRIMO MINISTRO La nuova Turchia di Erdogan fra orgoglio e ambizioni europee reportage Aldo Cazzullo inviato ad ANKARA il nome GLI uomini di Recep Tayyip Erdogan, leader islamico e vincitore delle elezioni turche, nutrono per lui una venerazione quasi mistica. Quando ne pronunciano accennano a un inchino del capo e rivolgono gli occhi alla punta delle scarpe. Ne parlano come se avesse facoltà che a loro sfuggono. Erdogan è alto, imponente, carismatico, e ha in effetti le mani caldissime. Ma forse è solo perché ne ha strette molte nelle ultime ore. Comunque il personaggio ha un suo spessore. Licenziato da impiegato al Comune di Istanbul, assessorato ai Trasporti, per aver rifiutato di tagliarsi i baffi, vi è rientrato 14 anni dopo da sindaco. Destituito per una poesia non apprezzata dall'esercito, imprigionato, condannato, carnefice di un'intera classe pohtica ieri dimissionatasi in massa per la gioia della Borsa di Istanbul ( -l- 90Zo), inventore di un partito che ha conquistato i due terzi dei seggi (considerando i sette «indipendenti» che hanno già espresso la loro benevolenza), Erdogan sa essere duro e accorto. Con i giornalisti stranieri, che ieri ha incontrato per la prima volta dopo la vittoria, è stato così. Che farà l'esercito con un governo islamico? «L'esercito è la pupilla dei nostri occhi. E comunque la Costituzione stabilisce regole e compiti precisi. Non abbiamo bisogno di mediatori tra noi e i generali». Il 450Zo dei turchi non è rappresentatato in Parlamento, è un problema? «La legge elettorale non l'abbiamo fatta noi. Noi la cambieremo». Siete 0 no un partito religioso? «Sono stufo di rispondere a questa domanda». L'Europa? «Non abbiamo l'intenzione di sfidare il mondo. Tre quarti d'ora fa mi ha chiamato il premier greco Simitis: tra qualche giorno sarò in visita ad Atene. Ho già preso contatto attraverso gli ambasciatori con i capi di governo di tutti i paesi europei: conto di incontrarli al più presto, prima del vertice di Copenaghen, a dicembre. Voghamo entrare in Europa, ma senza sacrificare il nostro orgogUo». Cambierà la Costituzione? «La Turchia resterà una Repubblica democratica, secolare e sociale», risponde Erdogan citando l'articolo 1 della Carta voluta da Atatùrk. Poi -aggiunge: «La nostra priorità è abolire i limiti ai diritti umani, i vincoli alla libertà di espressione, alla libertà rehgiosa, alle libertà civili e pohtiche». Parla da primo ministro: visite nelle capitali europee, negoziati, riforme. Ma non potrà esserlo. Per ora. Lo impedisce l'antica condanna per quella maledetta poesia. Tra i giuristi turchi è in corso una dotta disputa se l'interdizione dai pubblici uffici per Erdogan scada a febbraio o sia da intendersi come perpetua. Il presidente della Repubblica Ahmet Necdet Sezer è un giurista, e non ha alcuna simpatia per gli islamici, tra cui dovrà comunque scegUere il pros simo premier. I maggiorenti del parti- Il vincito to ne Utigheranno oggi pomeriggio. Candidato naturale sarebbe il numero 2 deU'Akp, Abdullatif Gul, che dell'islamico ha il fisico del ruolo che manca a Erdogan, scuro, irruente, asiatico nel sentire le cose e la pohtica; infatti Erdogan non se ne fida; inoltre sua moghe porta il velo e, ha fatto capire il capo, il particolare potrebbe creare problemi con i militari e le diplomazie europee. Non cela invece i capelli la moglie di Vecdi Goniil, che ha anche il non secondario vantaggio di essere amico di Sezer: hanno fatto il militare insieme; inoltre Goniil era presidente di una delle quattro sezioni della Corte Suprema quando Sezer presiedeva la Corte Costituzionale; è stato poi capo della polizia, cosa che non guasta. Ancora più tranquillizzanti altri due candidati transfughi da Anap, il partito conservatore crollato al 50Zo: Abdulkadir Aksu, anche lui ex capo della polizia, ed Erkan Mumcu, che ieri assisteva in un angolo alla conversazione tra Erdogan e i cronisti. Poco importa: nelle intenzioni del leader, quello che nascerà adesso sarà un governo provvisorio; «tra due 0 tre mesi vedremo». Gli islamici hanno i numeri in Parlamento per rimuovere gli ostacoli frapposti dai giuristi. La questione è che in questi due 0 tre mesi potrebbe accadere di tutto: a Copenaghen l'Europa è tentata di posticipare ancora l'avvio dei negoziati per l'ingresso della Turchia; in Iraq l'America è tentata di attaccare. Almeno su questo le posizioni di Erdogan e dei generali convergono: «Noi non vogliamo la guerra, il sangue, le lacrime e i morti nella nostra regione. Noi siamo per 'la pace in casa e la pace nel mondo"», ha detto citando ancora una volta Atatùrk. Questo gli preme: far capire che non sarà il nuovo Erbakan, che non si lascerà spodestare in un anno da un golpe bianco come accadde al vecchio leader dopo la vittoria elettorale, che non cederà al procuratore capo di Ankara (fautore della messa al bando dell'Akp). «Il nostro santo popolo» non lo permetterà. Per una notte e un giorno i mihtanti hanno veghato la sede e il capo, veghati a loro volta da poliziotti con mitra e blindati. Tamburi, musica, bambini, clacson, kebab, baci promiscui. Contadine del Sud-Est dai veli coloratissimi, donne bionde della costa egea, bambini imbacuccati, vecchi dell' Anatolia profonda, ragazzi fieri, facce e accenti delle varie regioni della grande penisola, i tanti volti dell' Islam turco. Ha ragione Erdogan, «siamo noi l'unico partito interclassista»: in questi anni gli islamici si sono mimetizzati per aggirare i divieti; hanno occupato sindacati, associazioni di beneficenza, moschee; si sono accreditati come non corrotti, non familisti, non succubi dell'Occidente, ma non per questo in contraddizione con i modi del vivere civile; si sono preparati a raccogliere i cocci della duplice crisi, della sinistra e delle élites. Così come nel Maghreb e in Medio Oriente l'integralismo è cresciuto sulle rovine delle illusioni del nazionalismo laico e socialisteggiante, dei disastri del partito Baath sfociato nelle satrapie siriana e irachena, della degenerazione dei movimenti indipendentisti algerino e tunisino in regimi polizieschi, del tramonto del populismo nasseriano, allo stesso modo in Turchia gli islamici dilagano sulle spoghe dei socialisti e dei modemizzatori. Il primo a dimettersi, da premier e da capopartito, è stato il vecchio Bùlent Ecevit. Con voce quasi impercettibile, l'uomo che da premier 28 anni fa mandò i carri armati a Cipro, che da vicepresidente dell'Intemazionale socialista si confrontò con Mitterrand e Kreisky, Brandt e Papandreu, che da marito e da malato si è sottomesso alla moglie Rashan, ha annunciato il «suicidio» di due generazioni di pohtici. Il disastro è totale. «Piazza pulita», titola il quotidiano centrista Sabah. Ismail Cem, il fascinoso ministro degli Esteri che aveva chiamato il suo partito «Veni Tùrkyie», nuova Turchia, evocando le grandi modernizzazioni del 1876 e del 1923, ha preso l'uno per cento. Ecevit, il due e mezzo. L'Europa non li ha aiutati; ma neppure un segnale di apertura da Bruxelles avrebbe cambiato qualcosa. L'ultima ad arrendersi, come si conviene all'unica donna del bacino mediterraneo ad aver imposto il proprio cognome al marito, è stata Tansu Ciller, esclusa per un pugno di voti. Fuori dal Parlamento tutti i partiti, di governo come di opposizione, tranne i repubblicani popolari, fermi al 1907o; e invano ieri l'ex ministro dell'Economia Kemal Dervis, l'uomo di Washington, offriva ima collaborazione di cui gli islamici (sbagliando, certo) non sanno che farsi. Può essere che qualcuno, il presidente 0 i generali, gli imponga di cambiare idea. «Per l'Economia abbiamo pronto il professor Ali Coskun», è l'annuncio. Cercasi disperatamente materiale d'archivio. L'elite economica se n'è fatta una ragione. Sakip Sabanci, l'uomo più ricco del paese, ha dato il via libera, e anche la famiglia Kòc non è ostile al nuovo corso. Troppi i prezzi richiesti (e pagati) dagli screditati leader uscenti. La Borsa premia la chiarezza apparente del risultato elettorale. La Tusiad, la Confmdustria turca che oggi arriva in delegazione a Palazzo Chigi da Berlusconi, si è limitata a una nota in cui chiede a Erdogan di non discostarsi dal programma economico concordato con il Fondo monetario; Erdogan, anche solo per sbloccare l'ultima rata del prestito da un miliardo e mezi:o di dollari, non si discosterà. Tra le varie anime dell'Islam turco, la Konya conquistata dai selgiudichi quattro secoli prima della caduta della Bisanzio greca, i fondamentalisti e i mercanti, i dervisci (che hanno già espresso il loro scontento) e i viaggiatori, i giannizzeri (non a caso addestrati dai dervisci) e i generali cosmopoliti (già partita la missione del comandante in capo Òzkòk a Washington), è inevitabile prevalga la seconda. All'Europa potrebbe non bastare. C'è già il casus belli : il velo, e non soltanto quello, della futura first-lady. «Finalmente potremo andare all' università vestite come ci pare», commentavano sollevate due ragazze l'altra notte, nella sede deU'Akp, brindando a orzata. Il velo nelle scuole e negli uffici è ora vietato; e quando l'on. Merve Kavakci del Fazilet, il partito delle Virtù (imo dei vari travestimenti linguistici cui sono ricorsi gli islamici), si presentò in Parlamento a capo coperto, le sciolsero il velo e il partito. Quando Erdogan parla delle «libertà civili» da ripristinare, intende cominciare dai simboli. Chiede l'aiuto dell'Europa, «che tutela i diritti dell'uomo». Bruxelles garante del velo, è il paradosso di Erdogan. I comunisti, in Turchia specie più introvabile del liocorno, sono d'accordo: caso letterario del momento è il pamphlet «Rosso, verde-verde, rosso» firmato dal musicista ateo Sanar Yurdatapan e dallo scrittore islamico Abdurrahman Dilipak, manifesto dell'alleanza tra contrari «contro la criminalizzazione del pensiero». Erdogan porta volentieri cravatte verdi, colore dell' Islam, alternate ad altre con mezzelune bianche su fondo blu cielo. La cravatta di ieri era viola. Ieri era il settimo anniversario dell'assassinio di Yitzhak Rabin. I 25 mila ebrei turchi, influenti in patria e negli Stati Uniti, l'hanno ricordato. Tra cinque giorni cade il 64" anniversario della morte di Atatùrk. Dall'ufficio al terzo piano di Erdogan si vede il mausoleo in stile sovietico-assiro m cui è sepolto. Forse è solo per questo che lo cita così spesso. Ieri si è dimesso Bùlent Ecevit, il premier sconfitto. Il suo erede annuncia: vado ad Atene e nelle altre capitali L'elite economica ha dato via libera e la Borsa ha reagito bene; ma esce di scena Kemal Dervis, r«uomo di Washington» «Vogliamo entrare nell'Unione, ma senza sacrificare il nostro carattere», assicura il capo dell'Akp: «La nostra resterà una repubblica democratica secolare e sociale» «La nostra priorità è abolire i limiti ai diritti umani», precisa il vincitore. Ma secondo molti questo significa solo libertà di velo per le donne all'università e negli uffici: ora è vietato Il vincitore delle elezioni, Recep Tayyip Erdogan Un uomo legge un giornale con i risultati delle elezioni: sullo sfondo, la moschea Kodja Tepe di Ankara