«Chief Moose» 22 giorni passati a braccare i killer

«Chief Moose» 22 giorni passati a braccare i killer LO SCERIFFO NERO APPREZZATO DALLA COMUNITÀ' DEI BIANCHI Capo della polizia di Portland negli Anni 90, fece crollare il tasso di criminalità della città. Ora guadagna 160 mila dollari l'anno, ma non riesce a spenderli, dicono, perché «non ha hobby, solo il lavoro» «Chief Moose» 22 giorni passati a braccare i killer Maurizio Molinari corrispondente da NEW YORK Camicia mal stirata, sguardo rivolto verso il basso, poche parole svogliate e determinazione da vendere. Charles Moose, il poliziotto di 49 anni che ha dato per 22 giorni la caccia al cecchino, è un uomo che preferisce le sfide ai riflettori e non cela le emozioni, neanche quando sono scomode. Nato in un piccolo centro della North Carolina quando c'era ancora la segregazione razziale, andò in scuole elementari dove bianchi e neri studiavano separati. Il desiderio di farsi valere lo portò prima a prendere la laurea in storia all' università dello Stato, e poi quella in studi urbanistici a Portland, nell'Oregon. Chi conosce la sua famiglia - è sposato con figli - assicura che fu il desiderio di diventare avvocato per difendere i diritti civili a spingerlo ad arruolarsi nella polizia. Entrò in un commissariato di Portland come agente di pattuglia nel 1975 e nel 1993 venne designato capo della polizia dell'intera città. La prima decisione fu di cambiare casa, per andare ad abitare nel quartiere più malfamato. «Resterò qui finché non ci vorranno venire tutti», disse, e mantenne la promessa. «Grazie a lui il tasso di criminalità a Portland crollò, è stato il nostro Rudolph Giuliani», racconta Sam Adams, capo di gabinetto del sindaco Vera Katz, aggiungendo il dettaglio che lo rese famoso: «Pagava di tasca propria le biciclette ai ragazzi poveri che non potevano riparare quelle rotte». Il successo sul campo gli valse nell'agosto del 1999 la promozione e la nomina a capo della polizia della contea di Montgomery, nel Maryland, con uno stipendio di 160 mila dollari, che non riesce a spendere perché «non ha hobby al di fuori del lavoro, non stacca mai», dicono i suoi agenti, tenuti costantemente sotto pressione. Il motivo per cui lo vollero nel Maryland, scrissero i giornali dell'epoca, fu che la contea era alle prese con infinite infrazioni al codice della strada da parte di «afroamericani non residenti molto indisciplinati in transito fra Washin- gton e la contea di Prince George». Una nomina che odorava di razzismo:, lui, afroamericano, avrebbe dovuto fermare quegli «intrusi» Moose non si tirò indietro e, oltre a ridurre il numero di incidenti stradali, si conquistò lentamente la fiducia dei suoi 1074 agenti, in maggioranza bianchi, che a Rockville e dintor¬ ni si vantano di ricevere per il compleanno gli auguri autografi di «Chief Moose». Esigente e premuroso con i suoi uomini, il poliziotto più fotografato d'America da quando il 2 ottobre vi fu la prima vittima del cecchino non è affatto portato per le pubbliche relazioni, e non lo nasconde. Quando il 10 ottobre i media rivelarono che tre giorni prima il killer aveva lasciato il «tarocco della morte» con la scritta «Io sono Dio», convocò le tv e a muso duro disse: «Queste fughe di notizie non aiutano le indagini, punto e basta». Due giorni dopo, accettando con ritrosia la domanda di un giornalista sui dubbi di un ex agente divenuto opinionista di criminologia, ha ribattuto: «Questa è gente in doppiopetto che va in tv molto fac ìmente a dire come la pensa, ma non vive nella nostra contea né manda i figli neUe nostre scuole». Ha accettato a malincuore le inevitabili conferenze stampa ma rendendole brevi ed essenziali quanto possibile, presentandosi con la camicia d'ordinanza mal stirata e lasciando intendere che la sostanza conta più del look. Designato alla guida della task force anti-cecchino in ragione dell'alto numero di vittime subite nella propria contea, sa bene che ha rischiato di essere sostituito dall'Fbi, ma non si è mai scomposto più di tanto. «Siamo qui e facciamo il nostro lavoro, collaboriamo con tutti», ha ripetuto,giorno dopo giorno, lasciando intendere che il suo lavoro lo sa fare meglio di ogni altro. «E' il poliziotto fra i poliziotti, basso profilo e tanto lavoro», dice di lui Walter Rader, presidente della confraternita degli agenti della contea. Svo¬ gliato di fronte ai media, quando si è trattato di usare la tv per parlare con il killer è entrato nei panni del protagonista: gli si è rivolto direttamente chiedendogli di essere chiamato, seguendo i consigli di psicologi e psichiatri dell'Fbi. Se lo schermo diventa utile alle indagini, per «Chief Moose» vale la pena usarlo. Il momento più difficile è stato martedì sera quando lui - e solamente lui - ha scelto di svelare pubblicamente le minacce che incombevano su ogni bambino della contea. «Non siamo in grado di proteggere nessuno in questa regione», ha ammesso. Ma non è stato un annuncio di resa, solo la definizione del terreno di duello con un avversario che sembrava avere ogni vantaggio. Di fronte al successo finale il poliziotto Moose ha reagito alla sua maniera, senza correre in tv per annunciarla. Detesta le telecamere ma sa usarle se gli . servono per ottenere il suo scopo, come quando si è rivolto in tv direttamente alla sua preda: «Chiamami» L'auto su cui è stato sorpreso addormentato John Lee Malvo in un'area di sosta lungo l'autostrada del Maryland circondata e perquisita dai poliziotti Charles Moose, il poliziotto che ha diretto le indagini sul serial killer