Collaborazionisti, la vendetta palestinese

Collaborazionisti, la vendetta palestinese ESECUZIONI SOMMARIE PER UNA CINQUANTINA DI PERSONE ACCUSATE DI AVERE SPIATO PER ISRAELE Collaborazionisti, la vendetta palestinese A furor di popolo e senza processo la loro condanna a morte reportage Stéphanie Le Bars TULKAREM NIENTE lacrime. E nemmeno rabbia. Soltanto sorrisi e una voce ferma. Come se il dolore fosse già lontano. Nadjla ha 18 anni, sei fratelli e sorelle più giovani di lei. Da alcune settimane sono tutti orfani. Arrampicato su un triciclo arrugginito, Ah, il più piccolo dei fratelli, tre anni e mezzo, ripete che ormai la mamma «vive in ima tomba». Non gli hanno spiegato perché. Nadjla, invece, lo sa. Il 24 agosto, alle quattro del mattino, Ikhlas, la madre, è stata ammazzata in una strada di Tulkarem, in Cisgiordania, dai membri delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa, un'ala militare clandestina di Al Fatah, il movimento di Yasser Arafat. Sospettata di collaborazionismo con gli israeliani, questa vedova di 37 anni avrebbe, secondo i suoi accusatori, fomite «all'armata nemica» informazioni che hanno permesso ai soldati israeliani di trovare e giustiziare Ziad Daas, responsabile dell'organizzazione a Tulkarem. Un tradimento che, con i tempi che corrono, conduce dritti alla morte. Senza processo, né possibilità di scampo. Ikhlas Khuli è la prima donna vittima di questa giustizia sbrigativa, riaffiorata dopo l'inizio della seconda Intifada, e che ha provocato una cinquantina di esecuzioni sommarie. A un mese dal funerale, circondata da fratelli e sorelle che vanno e vengono nel cortile di una modesta casa di Ertah, un quartiere di Tulkarem, Nadjla non è ancora convinta della colpevolezza di sua madre. «Stavamo tutto il tempo assieme; so di lei vita morte e miracoh. Non vedo quando possa aver fatto la spia per gli israeliani». Il suo viso banale di adolescente, incorniciato da un velo nero, non lascia trapelare niente dello choc che riconosce di aver subito durante gli avvenimenti delle ultime settimane. «E' venuto un impiegato del comune a comunicarmi la morte di mia madre. Era stata prelevata il giomo prima. Dopo averla uccisa, hanno abbandonato il suo corpo per la strada. E' stato durante il coprifuoco imposto dall' esercito israeliano. Ho saputo in seguito che un'ambulanza palestine¬ se si era fennata accanto a lei, ma i barelheri non hanno voluto trasportarla all'obitorio perché era una collaborazionista. E' questa l'immagine che mi fa più male». In un appartamento borghese del centro, Abou Feras, atletico ed elegante, si presenta come uno dei responsabili delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa a Tulkarem. Conferma la confessione d'Ikhlas. Gettato il suo kalashnikov sul divano nel patio, l'uomo scosta con un gesto il giubbotto antiproiettile che occupa una sedia e solleva il figlio di 18 mesi sulle ginocchia. «Dapprima, la nostra strategia non era di eliminare tutti i collaboratori, ma non può esservi pietà per coloro che sono stati complici dell'assassinio dei nostri capi. Costoro aiutano il nemico. Dobbiamo combatterli». A Tulkarem, le Brigate dei martiri di Al-Aqsa hanno rivendicato l'esecuzione di sei persone sospettate di aver favorito l'uccisione dei loro leader da parte degli israeliani. Raed Karmi, a gennaio, Ziad Daas ad agosto. In totale, l'organizzazione ha perduto quindici uomini, periti sotto il tiro degli israeliani. Pistola alla cintura, un telefono portatile in ciascuna mano, il giovane padre di famigha si dichiara «dispiaciuto di far scorrere sangue pa estinese», ma aggiunge, senza batter cigho, di «essere ancora pronto a uccidere qualsiasi persona metta a repentaglio la sicurezza dei nostri capi». «Dopo che l'Autorità palestinese e le sue infrastrutture sono state distrutte dagli israeliani, non ci sono più polizia e giustizia nelle città della Palestina; siamo quindi diventati poliziotti e giudici», spiega semplicemente quest'attivista che ha trascorso otto anni nelle carceri israeliane. «Fin dall'inizio di questa seconda Intifada, sono i reparti mihtari delle organizzazioni palestinesi a dettare di nuovo legge», conferma da parte sua Bassem Eid, direttore di «Palestinian Human Rights Monitor Group (Phrmg)», un'organizzazione palestinese per la difesa dei diritti dell'uomo di stanza a Gerusalemme Est. Nelle poche città in cui dispone ancora di qualche : potere, l'Autorità palestinese arresta i collaboratori. Alcune decine di loro sono attualmente incarcerati, in particolare a Gaza e a Betlemme. Dopo un processo istituito spesso affrettatamente, questi vengono in genere condannati al carce- re a vita. Due volte, nel gennaio 2001, a Gaza e a Nablus, sono state eseguite condanne a morte. Secondo il Phrmg, «Alan Bani Qdeh è stato fucilato il 13 gennaio 2001 dopo un processo durato appena tre ore; i suoi avvocati, designati d'ufficio, avevano avuto quindici minuti per prendere conoscenza degli incartamenti». Queste condanne alla pena capitale hanno sollevato in seno all'Unione Europea una tale protesta da costringere l'Autorità palestinese a rinunciarvi; ormai, le sentenze vengono commutate in carcere a vita. Agli occhi degli attivisti questa «clemenza» è inaccettabile. A più riprese prigioni e tribunah palestinesi sono stati presi d'assalto da groppi armati che si sono impossessati dei presunti collaboratori per giustiziarh. In questi casi i servizi di sicurezza palestinesi fanno mostra di ima certa discrezione. In primavera Tulkarem è stata teatro di una simile vendetta. Otto prigionieri sono stati prelevati dalle celle e uccisi; i loro corpi sono rimasti esposti in una via del centro per molte ore. «I bambini li prende- vano a calci - ricorda un commerciante -. L'occupazione israeliana ci trasforma in bestie». Proprietario di una grande casa a due passi dal campo dei rifugiati di Tulkarem, Abu Faruk è, con il governatore deila città, il notabile che si ritiene dovrebbe rappresentare l'autorità di Yasser Arafat sul posto. A mezze parole, il responsabile locale di al Fatah riconosce tuttavia la sua impotenza di fronte alle unità militari delle organizzazioni palestinesi. «Nel mese di settembre al Fatah ha pubblicato un testo di condanna per le esecuzioni sommarie di collaboratori, spiega. Ma occorre sapere che quello che interessa alla società palestinese non è tanto la loro sorte quanto conoscere quello che hanno fatto. Sicuramente, sarebbe preferibile avere un potere ufficiale, tribunali, processi, avvocati, ma tutto questo non esiste più, per il momento. Qui non abbiamo più nemmeno la prigione per rinchiudere i ladri; è stata distrutta dagli israeliani. Ma ciò che per noi è ancora più drammatico è che i servizi di sicurezza palestinesi nascondono numerosi informatori». Raffrontati ai 1200 presunti collaborazionisti giustiziati durante la prima Intifada 11987-1993), le poche decine di casi registrati dal Phrmg da due anni a questa parte sembrerebbero confermare che l'instaurazione dell'Autorità nel 1994 ha permesso di limitare gli eccessi della legge della strada. Per i collaboratori di secondo piano, reclutati per fornire informazioni di minore importanza, i mem¬ bri delle Brigate dei martiri di Al-Aqsa hanno istituito un'altra forma di sanzione. «Vengono denunciati alla Dopolazione neutralizzando così la oro capacità di nuocere», assicura Abu Feras. Rajah non ha goduto di questa magnanimità. Questa adolescente di 17 anni era la nipote d'Ikhlas. Alla fine di agosto ha conosciuto la stessa sorte della zia: è stata giustiziata in un terreno incolto. Suo padre era stato ammazzato un anno fa per presunta collaborazione. «Tutta questa famiglia è un nido di collaboratori», afferma Abu Feras con un filo di disgusto. «Reclutata» dagli zii, i fratelli di sua madre e d'Ikhlas, la ragazza ha ammesso di aver collocato una bomba sulla strada dove sarebbe transitato il capo militare Raed Karmi. In genere gli israeliani si procurano collaboratori promettendo loro permessi per lavorare, studiare o farsi curare in Israele. «Conoscono i bisogni della gente e ci giocano sopra», lamenta Abu Faruk: «Siamo ancora troppo dipendenti dagli israeliani per tutto quanto tocca la nostra vita quotidiana». «Riceviamo numerose lamentele di palestinesi autorizzati a lavorare neUe colonie o in Israele ai quali, un bel giomo, l'esercito israeliano sequestra i documenti. Queste persone diventano vulnerabili - spiega Bassem Eid -. Altri, sotto l'effetto di una condanna di diritto comune in Israele, accettano l'affare e il loro dossier è chiuso». Altri ancora, colti in flagrante delitto di adulterio, cedono al ricatto. «L'utilizzo da parte degli occupanti di persone dei territori occupati per ottenere informazioni è contrario alla convenzione di Ginevra», insiste Bassem Eid. Israele, tuttavia, non intende rinunciare ai collaboratori palestinesi. Secondo l'esercito, circa reo1!*) degli attacchi contro gli israeliani viene sventato grazie alle loro informazioni. Copyright Le Monde (traduzione Gruppo Logos) Otto prigionieri prelevati dalle celle e abbattuti «I bambini li prendevano a calci, l'occupazione ci trasforma in bestie» La storia tragica di Nadjla ragazza diciottenne la cui madre è stata uccisa dalle «Brigate Al-Aqsa» in una strada di Tulkarem Un collaborazionista trascinato in strada: tra pochi minuti verrà «giustiziato»