Giuffrè: un'unica strategia nei business di Cosa nostra

Giuffrè: un'unica strategia nei business di Cosa nostra LA PRIMA GIORNATA DI DEPOSIZIONE NELL'AULA1 BUNKER DI PADOVA Giuffrè: un'unica strategia nei business di Cosa nostra Il pentito svela il voltafaccia dell'87, quando la tradizionale alleanza con parte della De lascia il posto «all'avventura con socialisti e radicali» «E poi entrai in rapporto con il Gotha della mafia siculo-americana» personaggio Urie Abbate e Francesco La Licata A PADOVA t A vita quotidiana di Cosa nostra, l'organizzazione che sembra ricalcare in tutto quella dello Stato e della società civile, le leggi, gli usi e costumi, la spiegazione del funzionamento dei rapporti intemi ed estemi, la ricerca del consenso popolare attraverso una politica di moderazione e di «giustizia sostanziale» che allontani i cittadini dai loro doveri per farli avvicinare alla filosofia mafiosa. Qualche esempio? La facilità con cui Giuffrè, durante il primo maxi processo a Cosa nostra, riesce a guidare uno dei giudici popolari facendone una sorta di occhio intemo infiltrato nella corte d'assise. E ancora, la politica. Le riunioni degli organismi dirigenti per pianificare, di volta in volta, alleanze ed amicizie con partiti e candidati «dall'entità più piccola, dal più insignificante dei comuni fino al più alto livello nazionale». La «cupola» che si riunisce, vota e approva, nell'87, il voltafac¬ cia mafioso alla tradizionale alleanza con una parte della De per tentare «l'avventura socialista e radicale». E poi, la sua origine: l'apprendistato, il fidanzamento con Rosaria che gli permette di entrare in stretto contatto con gli Stanfa (parenti della futura moglie) e quindi col Gotha della mafia siculo-americana. L'affiliazione, che sembra una scena del «Padrino» e la liturgia mafiosa coi giuramenti, le bugie e i tradimenti, le «tragedie», il modo di procedere di cervelli votati alla congiura continua. Uno spettacolo, il lungo dialogo tra Nino «Manuzza» Giuffrè e il pm Michele Prestipino, spettatori attenti avvocati e giornalisti, arbitro e moderatore il presidente del Tribunale di Termini Imerese, Fabio Marino. Un replay del passato, della stagione dei grandi processi quasi certificato dalla riesumazione del simbolo, mediaticamente più immediato, di quella fase: il separé da pronto soccorso che sembrava irrimediabilmente sepolto. E il pentito incappucciato per nascondersi alle telecamere. A volte ritornano, avranno pensato i boss in carcere. Un'ombra cupa è passata sul volto del sig. Diego Guzzino, un tranquillo imputato a piede libero (masochisticamente presente in aula a recitare la parte dell'infamato), che il pentito indica come l'uomo che lo portò alla cerimonia dell'iniziazione. Povero Guzzino, accusato dall'ex picciotto che oggi afferma di avergli salvato la vita, quando i corleonesi lo volevano eliminare. Nino Giuffrè ha impartito la sua lezione di mafia dalla stessa «cattedra» - l'aula bunker «Due Palazzi» - che vide protagonista, sei anni fa, Tommaso Buscetta, l'altro grande pentito di Cosa nostra. La valanga di ricordi che «Manuzza» consegna ai giudici potrebbe far pensare ad una sorta di innocua messa in scena, più folkloristica che di qualche valore giudiziario. Ma non è così. Giuffrè è entrato nel vivo dei processi, anche quando afferma comportamenti che sembrano banalità. Per esempio, ha detto che «Riina e Provenzano potevano anche dissentire su qualcosa, ma non si alzavano dal tavolo se prima non avevano raggiunto il pieno accordo. E questo è importante». Già, ma perchè è importante? Non tocca a Giuffrè trarre conclusioni, ma all'osservatore medio non può sfuggire come una simile affermazione smentisca le convinzioni di quanti tendono a separare le responsabilità giudiziarie dei due capi corleonesi, per esempio rispetto alle stragi. Ma come si giustifica, allora che Provenzano venga addidato come il moderato e Riina come l'irriducibile? La domanda è passata anche nella mente del presidente Fabio Marino, che Iha girata a Giuffrè. E lui: «Provenzano era d'accordo con il discorso di Riina, ma quando ha visto che questi non davano i risultati sperati ha asserito che era stato un errore. Ha cambiato veste ed ha portato avanti un'idea non più stragista, cercando di rendere invisibile Cosa nostra». Avranno di che lavorare gli analisti che cercano di ipotizzare un prossimo scenario, per stabilire quale potrà essere il comportamento della mafia, dei boss liberi e di quelli in carcere. E' il problema centrale, in questo momento, della lotta alla mafia: capùe quale sarà l'atteggiamento di Cosa nostra di fronte all'attività legislativa e repressiva dello Stato. Una frase di Giuffrè sembra aprire uno spiraglio che certamente sarà approfondito. L'ex mafioso ha parlato di una «ristrutturazione regionale» alla quale lui stesso stava lavorando, fino al giorno dell'arresto. Una rinascita organizzativa della mafia, basata soprattutto sulla mediazione tra le diverse esigenze delle «famiglie» siciliane. Se è così, se cioè era già ripartita la . ricostruzione, dopo le macerie stragiste, che senso ha dare credito alle istanze del carcere che caldeggiano processi di dissociazione e persino appelli per la resa di Cosa nostra? Gli investigatori, in questa contraddizione, intravedono una sorta di «patto» tra boss carcerati e liberi per trarre in inganno lo Stato e quanti si sono mostrati possibilisti sull'efficacia di una qualunc[ue trattativa con la mafia. Per più di sei ore, Giuffrè ha scavato in questi ultimi ventanni. Dalla «punciuta» col santino che brucia, alla latitanza di don Michele Greco. L'emozione provata quando fu ammesso alla presenza del «Capo dei capi». L'orgoglio di far parte di una consorteria che è una rete di protezione, il vanto di entrare nei segreti più reconditi del potere. «Michele Greco veniva portato in giro dal principe Vanni Calvello di San Vincenzo e lui gli procurava gli appuntamenti». Ma chi vedeva. Greco il «papa»? «Spesso venivano Nino Salvo e Luigi Gioia, il fratello del ministro. Erano loro che si stavano occupando di cercare a Roma, il alto loco, le amicizie giuste per le necessità di Cosa nostra». E poi: «Per anni abbiamo appoggiato la democrazia cristiana, in particolare la corrente di Salvo Lima». Ma nel 1987 ci fu la «delibera» della Commissione che indicava di votare psi. «Era - dice Giuffrè - una minaccia per la de che aveva fatto dei passi indietro. Il discorso riguardava soprattutto il maxiprocesso, ma poi si era allargato fino a riguardare il tentativo di fermare la magistratura che culminerà con le stragi». Tutte dichiarazioni che certamente andranno a confluire nel processo d'appello contro il senatore Giulio Andreotti, ma anche nelle inchieste - ancora aperte - sulle stragi del '92 e del '93. «Riina e Provenzano potevano anche dissentire su qualcosa ma non si alzavano dal tavolo se prima non avevano raggiunto un pieno accordo Però il secondo si oppose alle stragi Preferiva l'invisibilità» Il pentito Antonino Giuffrè a Padova, protetto da un paravento, depone al processo contro le cosche delle Madonie

Luoghi citati: Padova, Roma, Termini Imerese