Sbaragliati i taleban, la guerra d'Afghanistan continua

Sbaragliati i taleban, la guerra d'Afghanistan continua IL FALLIMENTO DELLA RICOSTRUZIONE PI UNO STATO CENTRALE FORTE E CREDIBILE Sbaragliati i taleban, la guerra d'Afghanistan continua 11 paese resta dilaniato dalla lotta per il. potere tra fazioni, etnie e cellule terroristiche sopravvissute analisi LE bombe stragiste di Kabul e l'attentato a Karzai non sono soltanto la preparazione d'un anniversario che tutti s'aspettano inferocito di sangue e vendetta. La data è certamente un'occasione da sfruttare, ma quello che c'è dietro è piuttosto la progressiva occupazione d'uno spazio politico che la lentezza con cui sta procedendo la ricostruzione del paese lascia pericolosamente aperto alla lotta per il potere tra le fazioni, le etaie, e anche le cellule terroristiche sopravvìssute' alla guerra dell'anno passato. Karzai, che tutti chiamano presidente, è in realtà appena un «sindaco» di Kabul) e se non avesse attorno a sé 70 muscoluti bodyguards affibbiatigli dal generale Myers avrebbe già da tempo raggiunto sotto un metro di terra il suo partner di strategia politica Abdul Haq. Che gli americani abbiano vinto la loro battaglia contro i taleban, non c'è dubbio alcuno. Ma la vittoria e la fine della guerra non sono la stessa cosa. I mesi sono passati, il circo mediatico ha trasferito le sue tende verso altre frontiere, ormai a un passo da quella irachena, e tuttavia in Afghanistan si combatte ancora: non passa giomo che il New York Times o il Washington Post pubblichino un reportage o una foto su scontri a fuoco, raid aerei, attacchi improwisicontro le truppe americane rimaste a dare la caccia a Bin Laden (obiettivo ufficiale, ma in realtà rimaste a presidiare un caposaldo vitale del lungo conflitto che si sta preparando con la Gina, nuovo - e ormai unico «antagonista strategico» della potenza imperiale americana). Non è nemmeno questo, comun- que, che fa dire che la guerra non sia finita. In Kosovo ci sono ancora scontri con i peace-keepers, e la pacificazione in Bosnia non è poi definitiva: però in Kosovo e in Bosnia la guerra è certamente fini. ta. Quello che fa diverso l'Afghanistan è che - nell'anno che ormai va passando dalTimprowiso spappolamento della resistenza militare talebana, a metà novembre del 2001, con Kabul, Jalajabad, Mazar e Kandahar abbandonate l'ima dopo l'altra in una manciata di ore - ancora non è stata costruita quella struttura di potere capace di far nascere uno Stato, credibile, forte, dotato della legittimazione all'uso esclusivo della forza. A parte l'esercito dei pezzenti che toma verso casa dalle baraccopoli'impiantate nella frontiera del Pakistan, non Ve alcun altro esercito che oggi possa muoversi liberamente nelle terre afghane. Non l'esercito di Karzai, che dovrebbe avere alla fine 80 mila uomini ma che oggi è soltanto di poche migliaia di miliziani quasi tutti taglki, ed è dunque solo uno dei tanti eserciti etnici che si spartiscono il controllo del territorio; non l'esercito dei peace-keepers (italiani compresi), che se ne sta rinserrato nelle sue caserme improvvisate di Kabul e si guarda bene dal mettere il naso morì dalla periferìa della capitale; e non l'esercito degli Special Force americani, che i suoi trasferimenti li fa in elicottero e dovunque vada deve farsi proteggere da una preparazione logistica (ispezione del terreno, impiantamento dei nuclei di sicurezza, vigilanza costanza di Cobra e Ac-130 nel cielo) per non finire nelle imboscate. La guerra che è finita a novembre d'un anno fa è stata soltanto la «guerra delle città»: Kabul, Kandahar, Jalalabad, Mazar i-Sharìf, Kunduz sono state liberate dagli «studenti di Dio»; ma tutto il resto del territorio - un mondo infinito di montagne e di dirupi grande una volta e mezzo l'Italia - è tornato nelle mani dei Tniliziani, dei banditi di strada, degli sbandati fuggiti via dalla battaglia, che da sempre fanno di questo paese un mosaico ingovennabile di poteri feudali orgogliosamente autonomi e pericolosamente aggressivi (gli inglesi dell' Impero e i russi dell'Unione Sovietica ne hanno conosciuta la qualità con le sconfitte che segnano le loro storie mflitarì tra i bacini dell'Hin- du Kush e dell'Amu Darya). Fuori dalle città la guerra continua, ed è la «guerra» dei warlords, i capipopolo che si sono autonominati comandante e controllano - con la ferocia d'un Gambino, o d'un Al Capone, inturbantati - i trafiici, l'oppio, e l'ordine del territorio che si sono presi con la forza. Dostum (e Atta) a Mazar i-Sharìf, Ismail Khan a Herat, Gul Agha a Kandahar, Jhan Mohammed a Jalalabad, sono i padroni della vita e della morte dei poveracci cui tocca vivere sotto il loro dominio. E se Dostum ha una sua tv e una sua linea aerea, gh altri hanno comunque i loro eserciti e i loro affari da gestire indisturbati, ignorando le tasse e l'obbedienza al cosiddetto governo centrale. L'ultima volta che incontrai Dostum (che pure è stato nominato viceministro della Difesa) disse lisciandosi i baffi: «Se qualcuno del governo pensa di venire a mettere il naso nella mia città, a Mazar, lo manderò via a calci nel culo». Dostum è uno che parla chiaro e sa quello che dice, i nemici li fa schiacciare dai cingoli dei suoi carri armati. La guerra ai taleban è finita, la guerra d'Afghanistan è un'altra storia. Fuori dalle grandi città i veri padroni sono sempre i «warlords» con i loro traffici