Elogio della divisione

Elogio della divisioneJOSEP RAMONEDA IN UN SAGGIO CONTESTA IL TIMORE DEI CONFLITTI CHE CARATTERIZZA LA SOCIETÀ CONTEMPORANEA. ANTICIPIAMO PARTE DELL'INTRODUZIONE DI BARBARA SPINELL Elogio della divisione Barbara Spinelli SIAMO abituati a temere la divisione, come se da essa non potessero scaturire altro che guerre, violenze, fratricidi. Tutto il nostro linguaggio politico è impregnato di questo timore radicale, tutte le esistenze individuali si affaticano dietro questo miraggio: mettere fine ai conflitti, al dissidio. Ristabilire non l'unità provvisoria ma quella definitiva: l'unità babelica perduta nella notte dei tempi o promessa per luminosi tempi futuri. La divisione mette spavento, e non solo perché può offendere o uccidere le civiltà se non viene addomesticata, inserita in un reticolato dì leggi condivise. Mette spavento perché invalida, molto spesso, la fede in armonie prestabilite. Agisce come un acido che corrode, che spezza la forza agglutinante dell'Uno, che obbliga a contare almeno fino a due, fino a tre, e forse più. Siamo abituati a dire a noi stessi: dobbiamo eliminare quel che ci divide, dobbiamo trovare il comune terreno. 0 come diceva Karl Popper, per rifiutarne l'idealizzazione: dobbiamo trovare la comune cornice. Anche per Hegel era così. La straordinaria vitalità interrogatrice della dialettica socratica, egli la ingabbiò d'un sol colpo, sublimandola nella sintesi votata a cancellare ogni fastidioso contrasto e a presentarsi come verità assoluta. È precisamente questa comune cornice che il filosofo Josep Ramoneda vuole esaminare e mettere in questione, nel suo libro sulla morte delle passioni politiche. Tutto il suo lungo monologo attorno alle trappole del pensiero totalitario e allo svanire delle passioni civili è un elogio, colmo di passione, della divisione e del conflitto. Un elogio di quel che ha fatto grande l'Europa e che ha complicato, arricchendola, la sua pur possente radice comune. «L'intelligenza dell'Europa ha una funzione singolare: divide e separa - scriveva Alberto Savinio -. Anche quando non opera "per volontà", l'Europa continua egualmente per naturale impulso a dividere e separare, in maniera inappariscente e silenziosa. Lo spirito europeo odia il grumo. Qualunque grumo si formasse in Europa, è destinato a sciogliersi sotto questa operante antipatia». Senza conflitto non nascono né le città, né i cittadini. Il mito vuole addirittura che le città siano fighe del fratricidio. È Caino ^ che edifica la prima pòlis. È dopo aver ucciso Remo che Romolo si decide a fondare l'Urbe che darà i natali, alla codificazione del diritto. È per evitare l'ideologia del grumo che gli uomini cuseguali si scoprono eguali grazie alla loro metamorfosi in cittadini, e così trasformandosi possono associarsi in comunità senza tuttavia perdere l'auto-nomia, cioè la facoltà di dare a sé stessi una norma di condotta non uniforme, un nomos che salvaguardi quel che in fondo sta loro più a cuore: non l'armonia imposta, ma quella che Lucano chiama la concordia discors, la concordia discorde. I terroristi che si sono abbattuti sulle Torri dì Manhattan e sul Pentagono hanno voluto liquidare questa concordia discors, colpendo i due emblemi della variegata, mai uniforme conversazione cittadina: la piazza del mercato, e le mura che la difendono dail nemico. L'antipatia per il grumo è mancata crudelmente all'Europa, negli ultimi duecento anni: Ramoneda lo constata con allarme. È mancata soprattutto al secolo dei totalitarismi. Il grumo ha anzi preso possesso delle menti, le ha addestrate. Si è incarnato nello spirito di setta: nazionalista o progressista, av¬ vitato attorno al mito della razza o della classe. La militanza, la fede in un mondo infine pacificato, la scommessa in un avvenire messianico: oggi siamo dì fronte alle macerie di questi impeti dell'anima, e il cittadino europeo si sente come sperduto, orfano. L'impegno militante che aveva infiammato 1 padri: è roba del passato. Lo slancio di chi voleva cambiare il mondo ed era disposto perfino a sacrificarsi purché il cambiamento avvenisse: è un ingrigito anacronismo. Chi oggi vuol fare polìtica è alle prese con un decadimento della politica che è come un naufragio. Le passioni sono scansate Le passioni non sono semplicemente spente. Sono scansate come un malanno. Sono state la causa dì troppi errori, troppi orrori. E la conclusione che ne traggono le democrazie è improntata a una rinuncia istintiva. Oggetto di repulsione diventa la politica stessa, che delle passioni e stata ed è il nutrimento. È come se ì politici avessero orrore di sé, contemplando le fatiche e le antinomie della missione che è stata loro affidata: meglio disertare una volta per tutte il terreno che le passioni hanno fin qui occupato, meglio cedere il passo a chi sa agire con maggiore improntitudine e spirito più smagato, facendo a meno delle categorie classiche del politico. Nel momento in cui gli Stati cedono parti consìstenti delle loro sovranità, non c'è statista che sìa ancora in grado dì difendere con vera convinzióne l'autonomia del proprio mestiere, senza farsi inglobare e usurpare dal potere spesso soverchìante, e non dì rado soffocante, dell'economia. Non era stato chiesto questo estremo sacrifìcio ai sovrani d'Europa, il giorno in cui fu loro tolto il potere dì batter moneta. Si poteva reinventarla, la polìtica, senza consentire sì supinamente a un generale harakiri. Tanto più che il nuovo potere economico e ì nuovi imprendìtori:govemantì non sono vaccinati dal fondamentalismo che travagliò l'epoca delle passioni ideologiche. Con la sua allergia al pluralismo politico, il potere economico messo a nudo da Ramoneda sprigiona nuovi totalitarismi molli: il «totalitarismo dell'indifferenza», e l'integralismo del pensiero che torna a essere non solo unico ma unanìmìstico, non solo trionfatore ma inaccessibile ai dubbi. Lo spegnersi delle passioni non è di per sé una maledizione. È piuttosto un affrancamento dai totalitarismi passati. La politica può riprendere da lì, da quel salutare congedo dall'inebriamento militante. In fondo è dìù che mai la sua ora, solo che e democrazie liberali ritrovino il gusto di dividere e separare quel che tende a divenire un Tutto non frazionabile, raggrumato. Ma le cose sono andate diversamente dopo r89: perché si è voluto liquidare in fretta il passato senza ripensarne la natura, perché la politica stes- sa è divenuta oggetto dì demonizzazione. Perché ogni tabula rasa ha bisogno dì nuovi dogmi unificanti, capaci dì sostituire un Tutto con un altro Tutto. Alcuni dissero che la storia era finita: che si apriva un'epoca assolutamente moderna in cui l'Uomo Economico avrebbe condotto a felici approdi le democrazie, e la competizione naturale tra ì più forti avrebbe soppiantato la dialettica convenzionale tra sinistra e destra. Altri partirono alla ricerca dì nuove Gerusalemme celesti, auspicando esodi sbrigativi dalla globalizzazione. Non era vero dunque che le ideologie erano morte. Erano più che mai vìve, con l'aggravante che la politica classica s'era nel frattempo estinta. Al suo posto si è aperto un singolare spazio vuoto - vuoto dì ambizione al cambiamento, di partecipazione cittadina - e siccome la natura umana diffìcilmente soffre la vacuità, questo spazio è stato invaso da chi aveva pronti i vecchi arnesi prepolìtìcì delle guerre religiose. La distinzione bellicosa fra amico e nemico, che secondo Cari Schmitt è condizione della polìtica, non trova più modo di esprimersi quando si creano vuoti simili. E quanto avvenne in coincidenza con la fine dei totalitarismi novecenteschi: a venir meno non fu solo l'avversario, ma l'idea stessa di avversità. La democrazia divenne incapace dì pensare la violenza e le guerre che ricominciavano a insidiarla, perché il conflitto le era ormai estraneo e perché le élite incaricate dì custodirlo e ammansirlo attraverso la polìtica avevano disertato. È questo vuoto ed è questa diserzione che ha ingenerato, per reazione, ì nuovi integralismi che caratterizzano il nostro tempo: gli integralismi religiosi che si alternano a quelli nazionalisti o regionalisti, l'esaltazione del nichilismo fideista che s'accompagna all'apologia del soggetto etnico. Le radici dei totalitarismo Merito dì Ramoneda è di andare alla radici della malattìa totalitaria che ancora oggi ci portiamo dietro, e dì capovolgere non pochi assiomi del pensiero politico contemporaneo. Molte questioni restano aperte dopo la lettura del suo libro, a cominciare dall'intreccio tra passioni e conflitti: non sempre è chiaro se si debba avere nostalgia di quei profondi contrasti del passato, oppure se il loro stemperarsi rappresenti in fin dei conti un'opportuno commiato. Ma i suoi ragionamenti aiutano a capire i tempi che viviamo, gli errori che possiamo evitare. Non è vero, ad esempio, quello che ancora oggi usiamo meccanicamente ripetere: contrariamente a quel che immaginiamo, le stragi di popoli inermi non sono solo conseguenze di divisioni. Il più delle volte sono conseguenze delle armonie forzate. La notte di San Bartolomeo con il massacro dei protestanti non nacque dal conflitto fra religioni, nel lTatcqzèrtpdaari«tmscscgf 1572. Nacque dall'anelito a una società pacificata e armonica, tutta intera dedicata a un unico bene, un unico bello, un unico vero. In nome dell'amore e della redenzione tutto diventa possibile. Resìstere al grumo è possìbile, sempre che la politica ritrovi sé stessa e la sua natura asocievolmente sociale, come la definiva Kant. Ma è possibile solo a partire dalla constatazione che sulla terra non è possibile il cosmo ordinato disegnato dagli stoici. Il princìpio di incertezza e l'esperienza dell'errore lo infrangono ogni giorno, e l'uomo vive incessantemente all'indomani del peccato originale e della caduta, esposto al vento della storia e delle sue aporie. La vita non ha quel senso sublime e immobile che le viene attribuito dagli integralisti, ma è costantemente immersa nella conflagrazione degli elementi, nella ekpyrpsis che il prowidenziaUsmo stoico considerava eccezionale, unica. Bisogna cercare uno spazio negli interstìzi delle fedì assolute, scrive Ramoneda a proposito dell'attività del pensiero, e cercarsi dunque come maestri ì veri illuministi. Non quelli del Settecento, che in realtà sognarono un mondo armonizzato, dove .tuttp diviene possibile grazie alla forza ineluttàbilmente buona della ragione. Dove la politica viene secolarizzata, ma non perde per questo là sacralità che aveva. Il pensiero antifondamentalista più solido è quello che ha origine nel primo illuminismo europeo, sviluppato nel Cinquecento da pensatori critici come Machiavelli, Montaigne, La Boétie. È Niccolò Machiavelli che insegna le forme del nudo potere fine a sé stesso: sconnesso dalle idee, ignaro dei conflitti che lo vivificano, fatto solo perdurare in quanto potere. È Etienne de la Boétie che spiega, di questo potere, la forza segreta: forza tirannica che gli uomini tendono a conferirgli volontariamente, abdicando alla propria libertà prima ancora di esservi materialmente obbligati. È Michel de Montaigne che all'indomani delle guerre religiose insegna a pensare le sìngole parti indipendentemente dal Tutto. Che fare, quando le passioni appaiono senza rimedio spente? Quando l'homo ceconomicus prende il sopravvento, e quasi sembra avverarsi la predizione dì Marx, secondo cui non è più un governo politico a reggere gli Stati ma un comitato d'affari? L'etica minima proposta da Ramoneda è una strada che si può percorrere. Sono appena due frasi, che fanno apparizione a intervalli regolari lungo il suo ragionamento. «Non tutto è possibile», e «Tutto potrebbe essere avvenuto in modo diverso». Ci sono tabù da salvaguardare. Ci sono porte che conducono fuori dai disastri, se il mondo non è visto come un cosmo chiuso) immerso nella necessità. Si possono aprire le finestre della storia, a condizione dì mantenere vivo il grido dellarealtà, dell'esperienza vissuta, delle parole che ancora hanno un rapporto con i fatti senza diluirsi negli eufemismi. Solo l'integralismo, poco importa se rehgioso o progressista, è una «camera priva di finestre». È vero quello che ricorda Ramoneda: c'è il rischio di vivere da stranieri su questa terra, quando si esercita con. tanta passione il mestiere di chi non nasconde a sé stesso la realtà dei conflitti. Ma è un rischio che può rivelarsi benefico, perché trovare una strada è a questo prezzo. E perché una strada occorre pur sempre trovarla: «L'essere umano non ha forse senso, ma c'è bisogno di senso per vivere». Le esistenze individuali si affaticano dietro al miraggio di ritrovare l'unità babelica perduta nella notte dei tempi Si cerca una «cornice comune» perché mette spavento ciò che incrina la fede in armonie prestabilite Elogio della divisione

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