Sviluppo solidale sulla Sierra di Agalta di Domenico Quirico
Sviluppo solidale sulla Sierra di Agalta GRAZIE AL CIRCUITO ALTERNATIVO 6 MILA COLTIVATORI DI CAFFÉ' DELL'HONDURAS SONO SFUGGITI AL RICATTO DELL'INTERMEDIAZIONE Sviluppo solidale sulla Sierra di Agalta Contadini e commercio equo: un modello per il vertice la storia Domenico Quirico IL «coyote» arrivava puntuale, ogni anno, quando nei campi c'era poco da fare perché il primo raccolto era già ultimato da tempo e i chicchi sulle piante per la seconda raccolta del caffè ancora erano verdi e immaturi. I «cafetaleros» lo sapevano bene, aspettavano la sua jeep scoppiettante e fragorosa come si attende una pioggia inopportuna, un fungo che rosicchia i raccolti, le muffe che fanno intisichire i germogli. Persino i bambini sulla Sierra di Agalta, in Honduras, nell'aria tersa dei mille metri, sapevano chi era il «coyote»; e sospendevano i giochi, smettevano le grida, aspettavano. Il «coyote» sa di essere odiato, che nelle osterie dei villaggi quando passa sputano per terra; ma poco gli importa. Da sempre è questo il momento giusto per salire sulla sierra, affrontare la polvere dei tratturi. Perché questo è il momento in cui il campesino è povero, ha già venduto il primo raccolto, pagato una parte dei debiti contratti per comperare cibo e attrezzi, sementi, i poveri lussi di una vita aspra. E sa che hanno bisogno di lui. Il «coyote» è un po' commerciante, un po' usuraio: raccatta la produzione dei centomila produttori di questo paese centroamericano e la fa rifluire, a suo vantaggio nel grande circuito commerciale del caffè. Alla grande tribuna di Johannesbrug, tra capi di stato e economisti, dovrebbero invitare uno di loro: perché nessuno saprebbe spiegare meglio di lui come nasce e si impingua il grande circuito della povertà del terzo mondo. Il «coyote» sa che il contadino ha fame e bisogno di denaro, subito. E allora nei villaggi recita la sua giaculatoria: li aiuterà, anche lui è stato contadino, diamine, farà uno sforzo e comprerà in anticipo, a occhi chiusi, sulla pianta, senza controllare la qualità dei ciccld. Certo il prezzo sarà basso, ci mancherebbe, ma almeno le famiglie del villaggio tireranno avanti fino al prossimo prestito. L'accordo si farà, si stringono mani, solo lui, il «coyote», sorride. Maria Rivera se li ricorda bene i tempi del «coyote»: riceveva per ogni sacco di quarantasei chili trenta dollari, doveva poi rimborsare quanto gli era stato prestato con gli interessi e il ben oliato meccanismo dell'usura la teneva bene in pugno. I suoi sacchi, pri- ma di essere esportati passavano per le mani di tanti «coyote»: quello del villaggio, poi un pescecane più grande, quello che controllava la produzione di tutto il comune; e poi il distretto e la regione poi quello che ha in pugno tutto l'Honduras. Lei non lo sa ma i «coyote» sono tanti nel mondo: comprano il caffè e il cacao, le banane e lo zucchero, il the e gli ananas. Li trovi nei mercati colorati del Ghana e tra le piantagioni smaltate di verde dell'India, arracancano nella selva andina e percorrono le colline di smeraldo dell'Uganda. E' la loro la vera etema inossidabile mondializzazione, quella che impone al produttore del terzo mondo le regole del loro profitto. Sono questi piccoli voraci squali l'unico capitalismo che conoscono milioni di contadini del mondo. Adesso il «coyote» non sale più a Catacamas, perché i cafetaleros hanno ricevuto una offerta mighore. Fanno parte, insieme ad altri seimila piccoli e medi produttori della «Central de cooperativas» inserite nei circuiti dell'altro commercio, quello che esibisce la onerosa etichetta di «equo e solidale». E'una.rete mondiale che ammonticchia buoni affari ma anche importanti risultati sociali e politici in tutta quell'immenso pianeta che si chiama terzo (o quarto) mondo: sono cento sigle, inglesi francesi italiane tedesche scandinave, organizzazioni non profit che raggruppano i produttori e garantiscono loro un prezzo giusto gestendo la commercializzazione. Maria Rivera riceve cento dollari per il sacco da quarantasei chili: è un sogno in un mondo dove la caduta dei prezzi è al minimo storico, ben sotto i costi, sta strangolando, ad esempio in Brasile, centinaia di migliaia di contadini. I governi non c'entrano, la burocrazia mondiale della carità è assente, nessuna grande banca discute prestiti e profitti. Nessun capo di stato famelico come una locusta trattiene parcelle politiche. Eppure funziona. La produzione assorbita dai circuiti ancora ristretti del commercio «che fa del bene» non consentirebbe ai piccoli produttori di sopravvivere se non si accompagnasse a un circuito di credito «alternativo». «Etimos», ad esempio, è un consorzio italiano non profit di microfinanza che raccoglie ong, fondazioni, enti religiosi, cooperative dell'altro commercio che è stato tra i promotori della Banca popolare etica. I suoi clienti vivono in tutto quell'immenso pianeta della povertà che va dal Nicaragua al Mozambico a cui i banchieri guardano con un brivido di paura. Quest'anno ha concesso alla cooperativa dei cafetaleros dell'Honduras trecentomila dollari di prefinanziamento alla produzione con cui hanno assorbito la crisi del mercato e lanciato programmi sociaU di sviluppo, costruito cioè scuole strade, negozi, assunto maestri e medici. Alcuni giorni fa centinaia di produttori della Central sono stati pestati e arrestati dalla polizia. L'accusa: «sedizione contro lo Stato». A Johannesburg una ragione in più per riflettere. Prima gli usurai davanoloro trenta dollari al sacco, oggi sono garantiti cento dollari Ma la polizia ha arrestato centinaia di campesinos accusandoli di «sedizione»
Persone citate: Maria Rivera
Luoghi citati: Brasile, Ghana, Honduras, India, Johannesburg, Nicaragua
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