Cinese per forza di Francesco Sisci

Cinese per forza LE VICISSITUDINI DI UN ITALIANO CHE PER MEZZO SECOLO HA VISSUTO CON UN'ALTRA IDENTITÀ. ORA VUOLE TORNARE IN PATRIA Cinese per forza Francesco Sisci ^ WENZHOU QUI lo chiamano Xu Xiangshun, Fortunato Xu, ma il suo vero nome è Alvise Giusti, nato a Milano il 10 novembre 1944, come recita il certificato di battesimo. Il nome proprio non riesce quasi a pronunciarlo: «Vise», biascica. Qui, per tutti, anche per se stesso, lui è l'Italiano di Wenzhou, la zona della Cina dove ha trascórso 54 anni dei suoi 58. Il paradosso è che da Wenzhou centinaia di migliaia di cinesi se ne sono andati, per provare a costruirsi un'altra vita in Italia o in Europa, ma lui no: lui, che è un italiano vero, con gli occhi verdi, il naso lungo, affilato e ingobbito, i capelli ondulati e ancora spruzzati di biondo sotto il grìgio che avanza, è bloccato qui, forse non riuscirà a uscire mai da questa gabbia. Raccontiamo questa storia eccentrica, di un uomo che nell'epoca della globalizzazione è stato privato dell'identità, è diventato un altro, ha patria in un altrove e non riesce a tornare ad essere quello che in orìgine era. Alvise è figlio di Natalia Adele Alcide Giusti, nata nel 1917 a Bagnarola, provincia di Pordenone, e andata a lavorare a Milano con la madre durante la guerra. Qui ha una relazione con un soldato italiano che va al fronte e muore. Nasce un bambino. La ragazza va a lavorare in un laboratorio di confezioni di proprietà di un commerciante cinese arrivato nel 1931 in Italia, Xu Dingfu. Questi ha una storia con lei, che rimane incinta. Si sposano in chiesa nel 1945. Da quel momento i documenti ancora esistenti smettono di parlare e cominciano i ricordi confusi di Alvise, divenuto nel frattempo un signore che non parla né l'italiano né il mandarino, ma solo il difficilissimo dialetto di Wenzhou. Alvise raccon- ta che lui, la madre, il padre adottivo e il fratellino tornano in Cina nel 1948, chiamati da una lettera del padre di Xu Dingfu che si dice m punto di morte. Il viaggio per mare è durissimo e il fratellino muore: forse è un segnale nefasto per Xu e i tre compaesani, tutti commercianti cinesi in Italia, che lo accompagnano. Una volta in Cina le cose si fanno subito difficili. L'arrivo al potere dei comunisti nel 1949 rende la vita complicata per questi imprenditori, e non è ben chiaro ad Alvise che fine abbia fatto la fortuna che Xu si è portato dall'Italia. Una sola cosa è sicura: la famiglia è in miseria. Dei tre compagni di avventura uno toma presto in Italia, un altro muore in un incidente e il terzo trova il modo di riandare all'estero qualche anno dopo. Natalia vorrebbe rimandare il figlio in Italia, ma Xu Dingfu, affezionato al piccolo, si oppone: Alvise è il primo figlio maschio, è l'erede della famiglia, perciò non può lasciare il padre. Natalia, che nel frattempo ha perso alla cittadinanza italiana, nel 1950 muore, probabilmente di fatica e di stenti. In punto di morte ha raccomandato ad Alvise di tornare in Italia. Pare che la sorella di lei abbia scritto al cognato di portare il bambino a Hong Kong dove lei lo avrebbe prelevato. Ma Xu non lo porta a Hong Kong, forse perché non può uscire dal Paese, o perché, come dicono a Wenzhou, deve curarsi del padre e non ha alcuna intenzione di staccarsi dal bambino. Certo il rapporto di Alvise con il padre, e anche con la donna che poi sposerà Xu, è molto forte. Una gigantografia dei genitori adottivi fa oggi bella mostra di sé al pian terreno della casa di Alvise, che prima era stata la casa di Xu, l'uomo che si è sempre opposto al ritomo in Italia del figlio, nascondendogli i documenti della madre fino al giorno della propria morte, awenutanell993. Rimasto solo e povero in canna, Alvise vende i mobili e va a Pechino: tenta senza successo di parlare con qualcuno dell'ambasciata insieme a un paesano di Wenzhou che però lo imbroglia. Cerca anche la locale associazione degli emigrati cinesi in Italia, ma questa gli spiega che c'è bisogno di un invito per andare a Milano, invito che Alvise non ha. Un altro tentativo lo compie qualche anno più tardi, nel 1997, quando Alvise si rivolge al consolato italiano di Shanghai, dove la sua faccia itahanissima non serve però ad aver ragione della burocrazia e della procedura per ricostruire la cittadinanza. E poi, gli spiega qualche diplomatico uomo di mondo, casi del genere non sono unici, in Argentina e in Brasile abbondano. Ma non vede che quello di Alvise è unico: è il solo bambino occidentale di fatto disperso nella profonda campagna cinese da prima del'49. Così la storia di Alvise conti¬ nua a vivere tra le scartoffie di qualche ufficio, fino all'anno scorso, quando fu scoperta dalla Stampa. La vicenda commosse i cinesi residenti in Italia, che si diedero da fare per rintracciare la famiglia di Alvise e per far arrivare lui in Italia. E infatti, nello scorso novembre, Alvise è arrivato per una decina di giorni. Alvise pianse nel vedere la Madonnina del Duomo di Milano: ricordava che la mamma le era tanto devota; si commosse incontrando a Pordenone le sei sorelle e il fratello della madre, i cugini a cui tanto somighava. Ma ha sofferto per il cibo italiano, che non tollerava. Pasta e pane non erano adatti a lui, nemmeno i salumi e i formaggi. Solo il vino gli piaceva. E' inutile, questa vita l'ho passata da cinese e continuerò a viverla da cinese, ha detto Alvise con il fatalismo che gli ha trasmesso la madre adottiva cinese, diventata suora buddista dopo la morte del marito. Lui però vuole che i figli, un ragazzo e una ragazza, e i nipotini, vivano da itahani come lui non ha potuto, crede che la vita glielo debba. Non smette di sperare di passare la vecchiaia in Italia, un posto dove si sorprende che tutti abbiano una faccia come la sua. Così ti guarda come per riconoscere nei tuoi tratti ì suoi. Quando era bambino non ci badava, ma da grande la diversità ha creato qualche intoppo. Tutti lo chiamavano lo straniero, il nasone, oppure topo d'acqua per come nuotava bene. Alvise ha salvato tre vite nel fiume e forse ne ha tolta qualcuna, quando faceva la guardia rossa e sparava ai nemici di classe. Racconta che era molto coraggioso, campione di arti marziah. Anche suo figlio è un buon lottatore e in questo paesino aggrappato sulle pendici della montagna vicino a Ruian, tutti dicono che è bravo, ma cocciuto, testardo, forse per il dna friulano. Oggi Alvise ha perso cinque dita delle due mani a causa di un incidente di lavoro. Il Comune lo impiega come guardia forestale. Sulla montagna che sorveglia dai pericoli di incendio ha costruito nel 2000 ima tomba per il padre e per la madre di cui non ricordava bene il nome. Ma non ricorda bene nemmeno il suo nome it aliano. La madre lo chiamava qualcosa come «Vise», ripete, e sorride tra le rughe profondissime che gli scavano la faccia. «Potranno danni il passaporto itahano?» chiede. Per tutta la vita ha sognato di tornare in Italia, non sarebbe dovuto venire qui, la madre non voleva, glielo ha imposto il padre adottivo. La moglie di Alvise, ima donna minuta che strascica i piedi e sorride a tutti, dice che lui non ci sa fare, che è tanta la gente non italiana che è andata m Italia e ha fatto fortuna. Alvise, no. Alvise ride, che può fare? - Poco lontano dal paesino, in un albergo di lusso di Wenzhou, una famiglia che gestisce un ristorante cinese a Bergamo bassa è in vacanza. Lulu e Mirko, di sette e cinque anni, sono nati in Italia, non parlano una parola di cinese, e sono itahani. In questo mondo dove i tratti somatici non contano, i genitori di Lulu e Mirko sono tra quelli che più di altri vorrebbero aiutare Alvise, compaesani di quel Xu che scelse il piccolo Alvise come erede. Forse anche questo vorrà dire qualcosa. Figlio di una friulana Alvise Giusti nato a Milano nel '44 yiene adottato M^ commerciante della zona di Wenzhou Quattro anni dopo il padre adottivo torna al suo paese insieme al bambino integrandolo nella propria cultura :,fevy;

Persone citate: Alvise Giusti, Fortunato Xu, Lulu, Natalia Adele Alcide Giusti, Vise, Xu Xiangshun