Lucentini marziano nell'Italia delle ideologie

Lucentini marziano nell'Italia delle ideologie BEFFARDO NEI CONFRONTI DEL FASCISMO. RIFIUTAVA LE ETICHETTE POLITICHE Lucentini marziano nell'Italia delle ideologie Racconti, rubriche, traduzioni: la mappa della sua produzione letteraria Lui salvava solo «Notizie dagli scavi» come inizio di una ricerca di stile Domenico Scarpa Sfeiòs ònar ànthropos: ombra di un sogno l'uomo. Franco Lucentini ripeteva le parole della ottava Pitica di Pindaro centellinandone gh accenti: lo schianto di grancassa di sfciàs, l'ombra, poi la vocale spalancata e ascendente di ònar, il sogno, infine il terzo e ultimo sostantivo ànthropos, uomo, che colpiva come una prolungata trafittura di spiedo. Era uno dei suoi versi preferiti, uno dei tanti che era in grado di ricordare nella lingua originale. Più precisamente, si trattava di frammenti di due versi; Skiàs ònar I ànthropos. C'è una cesura: un verso finisce, ne comincia un altro. Pindaro ti lascia in sospeso per un momento: ombra di un sogno che cosa? E solo andando a capo scopri che quell'ombra sei tu, che tutti noi lo siamo. A Lucentini questo crepaccio di suspense scavato dentro un inesorabile macigno verbale sulla condizione umana piaceva moltissimo; lo divertiva. Era come il monogramma dei due talenti che s'intrecciavano in lui: la meditazione sull'uomo e l'universo, sulla sua natura e i suoi perché, e 0 gioco letterario che gh permetteva di pmgere queUe domande scoscese e solenni alleggerendole, rendendole accessibili a chiunque senza sminuirne la complessità: la filosofia, e una lingua per comunicarla. Non per nulla aveva scritto con il suo socio in scritture Carlo Frutterò un romanzo d'appendice - glielo aveva commissionato Montanelli - intitolato Il significato dell'esistenza, dove la Filosofìa s'incarnava neUe rotondità, nei profumi e nell'astuccio del rossetto d'una Straniera misteriosa e fatale come in ogni spy-story che si rispetti. I versi di Pindaro, Lucentini li pronunciava con l'accento romanesco sopravvissuto a oltre mezzo secolo di lontananza dalla città in cui era nato, la notte di Natale del 1920. Era un accento gentile, lustrato dal tempo, e lo si coglieva anche nel fondo del francese che parlava con sua moghe Simone, incontrata a Parigi negh anni Cinquanta. La famiglia Lucentini veniva da Visso, un paesino del Molise dove suo nonno possedeva un mulino. Prima di emigrare nella capitale, suo padre aveva graffito il proprio nome sulla facciata della pieve; il fighe lo ritroverà molti anni dopo. La Roma di Lucentini è una Roma scalcinata, popolare, una Roma di rovine in rovina. «Mi piaceva piazza del Pantheon sia come luogo d'archeologia, sia perché era al centro di una matassa di vicoli. Vicoli e rovine: questa era la mia Roma. Ho odiato con tutta l'anima la città umbertina». Da ragazzo, si comporta da autodidatta. Gira la città con l'aiuto delle guide Touring, che diventeranno sardonici breviari dell'uso di mondo nei romanzi scritti dalla coppia Frutterò fr Lucentini. Dopo il liceo s'iscrive a Filosofia. Il fascismo gh appare dispotico e stupido nella stessa misura, e nemmeno sopporta i cosiddetti ((frondisti», annacquati oppositori del regime amici di Bottai e di Vittorio Mussolini. Da questa doppia insofferenza, la beffa che organizza nel maggio '41 all'università. Compra quattro pacchi di stelle filanti e un kit del «Piccolo tipografo», e sulla faccia interna delle stelle filanti stampa frasi sovversive e sfottò contro il duce, senza trascurare qualche W la fica a mo' di alleggerimento. Il materiale viene abbandonato nel cortile dell'università. Lo trova un gruppo di avanguardisti che ritoma da una manifestazione a favore della guerra e del 18 politico agh esami. I giovanotti non resistono alla tentazione: soffiano nelle stelle filanti e troppo tardi si accorgono dell'effetto: il cortile lussureggia di carta sovversiva multicolore, e loro si vedono addirittura caricare e manganellare dalla polizia come antifascisti. Scoperti l'equivoco e il responsabile, Lucentini si fa sei mesi in isolamento a Regina Coeli. Non lega con i detenuti politici, mortalmente sussiegosi, che vogliono indurlo alla «presa di coscienza» (e a prendere una tessera di partito). L'unica consolazione è lo spigolo rotto della finestra murata nella sua cella: dalla fessura si vede il Gianicolo. Di quegli anni universitari sopravvive oggi un quademo ingiallito, di quelli con la copertina nera e il margine dei fogli tinto in rosso, sul quale Lucentini si è dilettato a tradurre dal cinese, in versione «iperletterale», il Tao Té Ching, primo libro del canone di Confucio. E solo la prima testimonianza di una vocazione che lo porterà ad affrontare altre massime cinesi (quelle del presidente Mao, ma con impassibile spirito filologico) e a guadagnarsi la fama, nelle case editrici per le quah lavorerà, di terrore dei traduttori. Nei primi anni Sessanta, quando comincia a dirigere con Frutterò la rivista di fantascienza Urania, impiega tre puntate della rubrica U Marziano in cattedra, nella quale veste la tuta spaziale del prof. Marziano, per correggere la prima riga, e solo quella, delle versioni di un passo di Robert Sheckley proposto ai lettori come esercizio. Il servizio militare, la guerra, il breve impegno politico in una formazione chiamata Democrazia Intemazionale che con lungimiranza si propone il superamento del fascismo e dell'antifascismo. Poi, l'impiego ai servizi intemazionali dell'Ansa e le promesse di carriera: ma butta tutto all'aria da un giomo all'altro e abbandona Roma, forse, per una delusione d'amore. Lo ritroviamo a vagabondare nella Vienna 1948, la stessa del Terzo uomo. Comincia qui la sua vicenda di scrittore. Franco, l'io narrante del suo primo racconto I compagni sconosciuti, è lui stesso: un energico e ossessivo garbuglio di energie, e una capacità sbalorditiva di comunicare con il prossimo, di ascoltarlo e «sentirlo». Franco medita un suicidio che il finale della storia lascia in sospeso, così come restano sospese nell'aria, fragili e inalterabili, le voci dei compagni che gh tessono intorno una trama di frasi cèche, russe, tedesche. Per quell'epoca, è un racconto rivoluzionario. Elio Vittorini se ne entusiasma e lo sceghe per inaugurare nel 1951 la collana sperimentale «I Gettoni», che dirige da Einaudi. Qualcuno lo scambia per un fratto particolarmente audace della stagione neorealista; quindici anni dopo, sarà la neoavanguardia a rivendicarlo come precursore. In entrambe le occasioni, l'entusiasmo dell'autore è scarso, soprattutto per una cruda severità verso se stesso: quel Franco, dirà più tardi, «era puramente e semplicemente in preda a quella che Valéry ha sma- scherato, una volta per tutte, come "disperazione post-giovanile": la disperazione, cioè, di ritrovarsi su i trent'anni "senza essere né ricco né celebre". Altro che storie di fratellanza umana!» Il solo suo racconto al quale Lucentini riconosca qualche pregio, e l'inizio di una ricerca di stile (parole sue), è Notizie degli scavi {1964): anche in quella storia, è lui il Professore che dice io, il mezzo minorato dall'attenzione ossessiva che lavora in una pensione di malefemmine, e che con il suo puntiglio di miope negh occhi e nel cervello riesce nientemeno che a smontare il tempo, l'universo. C'è in quel racconto una frase straordinaria. Il Professore è sotto una tettoia degli scavi di Villa Adriana, solo. Sta aspettando una delle signorine che ha accompagnato sul lavoro. Piove. «Da una grotta in fondo veniva un cane, a vedere che stavo lì, e dopo ne venivano pure altri due, più grossi. Stavamo con questi cani a guardare che spioveva». Stavamo: lo sguardo del narratore livella se stesso e i cani allo stesso grado di esistenza, di fratellanza, di uguaghanza. Era questo il modo che aveva Lucentini di smontare il nostro universo trito, ed era questa la bontà che ci ha illustrato Frutterò in un racconto-prefazione, scritto per un'edizione delle Notizie e intitolato Ritratto dell'artista come anima bella: un ritratto straordinario che bisognerebbe ristampare prima di subito. Quando Lucentini cominciò a occuparsi di storie di fantasmi e di guerra, quando al seguito di Frutterò lasciò il tempio intellettuale Einaudi per trasferirsi nel supermarket Mondadori a dirigere riviste di fumetti e di fantascienza, furono in pochi a capire. Il ^esto.fu giudicato una manifestazione di snobismo alla rovescia. Da allora in poi, si diffuse il luogo comune di Lucentini grande scrittore d'avanguardia corrotto da Frutterò e dalla smania del bestseller. Ora non è il caso di smontare questa sciocchezza. Basterà leggere mezza pagina a caso dei romanzi di Frutterò B Lucentini (quelli che inalberano con orgoghoso pudore la celebre 8commerciale) per accorgersi che non è così. E non è naturalmente neppure il caso, per rispetto verso Lucentini e verso Frutterò che ha perso l'amico, di provare a suddividere 0 territorio dei loro libri nelle rispettive zone d'influenza, Berlino Est-Berlino Ovest. Tanto Frutterò quanto Lucentini considerano l'universo un fantasma, ed è stato probabilmente questo a unirli e a fargh mantenere un silenzio assai british su questa convinzione, nella quale c'imbattiamo in ogni loro opera. Conta poco che i fantasmi di Lucentini provenissero dai Presocratici (che lui leggeva in originale, nell'edizione Diels-Krantz) e quelli di Frutterò magari da Henry James. Oggi importa solo che Franco Lucentini, pur dubitando sempre della reale esistenza dell'universo, e pur considerando l'universo un disguido del Non-Essere, abbia passato tutta la vita ad armeggiare con il kit del piccolo tipografo e con stelle filanti di tutti i colori, sul rovescio delle quah abbiamo potuto leggere, divertiti e sgomenti, che ombra di sogno è l'uomo. All'università con un kit del piccolo tipografo e un po'di stelle filanti si prese gioco degli zelanti avanguardisti Finì sei mesi in carcere dove abbozzò la versione delle massime di Confucio Franco Lucentini al lavoro nel suo studio di Torino dove era facile trovare dizionari spesso spezzati in due, in tre o in quattro per renderli più maneggevoli

Luoghi citati: Berlino Est, Berlino Ovest, Italia, Molise, Parigi, Roma, Torino, Vienna, Visso