Vagabondo e sognatore tra due CITTA' di Nico Orengo

Vagabondo e sognatore tra due CITTA' IARCHICA INDIPENDENZA. UNA VITA DI PICCOLI RITI, IDIOSINCRASIE E OSSESSIONI Vagabondo e sognatore tra due CITTA' Nico Orengo TORINO. La luce, in alto, sopra il dehors del bar in piazza Vittorio, con il suo colore arancione, caldo, dava sicurezza, ancora pochi giorni fa: era il segnale che Franco Lucentini era sveglio, stava leggendo, qualcuno dei suoi classici, Sallustio, Cicerone. O Erodoto, immaginandoselo star di successo a Hollywood, nella sua villa di Bel Air, dopo i serial tivù Lampi del passato. Uomo di umorismo e pessimismo, che nelle rovine vedeva la vera forma del mondo, capace di costante e timida ironia, aveva il sorriso dell'uomo buono e disarmato, pignolo e ossessivo. Quell'ultimo piano di piazza Vittorio era uno dei suoi due gusci, foderato di libri, in librerie e pile ordinate, una casa senza televisore e giornali ma buona musica, da cui scendeva per salutare la giomalaia Adele all'angolo, o prendere un caffè da Ghigo o, se era in compagnia, mangiare una cosa da «Michele» o alla «Spada Reale», attento alla disposizione dei piatti, delle posate e sempre un po' rigido, legnoso, con la sua bella faccia da legionario di Cesare o da Buster Keaton, vestito preferibilmente in velluto con cravatte scure su camicie scure o maglioni da cave esistenzialista. L'altro guscio era alle porte di Parigi, nella foresta di Fontainebleau, ima casa sul canale, una immagine da romanzo di Simenon, che si era testardamente ricostruita con un lavorg^lentp, minuzioso, da bricoleur, idàl tetto all'impianto elettrico, dalle scale, dalle quali era-più volte ruzzolato, ai pavimenti in legno.- Torino e Parigi, per lui romano, erano le sue «due città», già dopo essersi laureato in filosofia ner42 nella Capitale, esser stato in galera e al confino per una burla ai danni di suoi colleghi universitari eccessivamente fascisti. Se ne era andato a Praga e a Vienna e poi a Parigi, dove l'incontra Carlo Frutterò. Lucentini segaligno e robusto fa i massaggi, in una palestra, a ricche e mature signore. Frutterò un po' il lavapiatti e un po' il cameriere. Entrambi hanno sentito l'aria irrespirabile dell'Italia e il fascino di Parigi. Lucentini scrive racconti che piacciono a Frutterò che già sta pensando ad una possibile vita editoriale da realizzarsi in Italia. E infatti all'inizio del '53 si impiega come redattore all'Einaudi, correggendo bozze, scrivendo risvo ti, traducendo, scoprendo autori come Beckett e Salinger. Dalle stanze di via Biancamano non si dimentica dell'amico narratore e massaggiatore e si fa mandare schede di lettura di libri francesi. Lucentini diventa così un consulente dello struzzo, segnalando RobbeGrillet ma anche Borges. Nel '56 non potendone più di una Francia sempre sull'orlo di ima guerra civile, con una Parigi sconvolta da attentati quotidiani, morti e feriti, terroristi algerini e Sante straripante di intellettuali, Lucentini decide di rientrare in Italia. Va a Torino e il suo amico Frutterò riesce a farlo entrare, anche lui all'Einaudi, dove rivedrà traduzioni e note di classici. Intorno a loro ci sono in quegli anni Italo Calvino, Natalia Ginzbm-g, Massimo Mila, Cesare Cases, Giulio Bollati, Franco Fortini, Sergio Solmi, Luciano Foà, Elio VittoriAi. Sono gli anni dei «Gettoni» e dell'impegno, delle discussioni vivacissime che il gruppo einaudiano fa in casa editrice e nelle trattorie torinesi, da «Simone», ai «Goffi», in collina alla «Fontana dei francesi», ci saranno i «fatti d'Ungheria», le incrinature con il Pei, i distinguo, le uscite dal Partito. Lucentini e Frutterò, anarchici e individualisti, galleggiano fra le correnti impetuose di via Biancamano, si tuffano su una idea di Solmi e costruiscono una antologia di racconti di fantascienza. Le meraviglie del possibile. Ormai è la fine degli Anni '50, Lucentini, che ha esordito come narratore con I compagni sconosciuti, che ha letto e tradotto le avanguardie, ha voglia di misurarsi con la letteratura «popolare». in sintonia assoluta con Frutterò. E mentre i loro amici discutono di Adomo girano le bancarelle torinesi cercando libri pohzieschi, del mistero, di fantascienza. Hanno preso contatto con la Mondadori, vogliono progettargli, cosa che faranno, una Antologia di fantasmi e pensano di curargli anche un settimanale di fantascienza, Urania. L'editoria milanese per Frutterò e Lucentini è «una vacanza ideologica» dalle stanze einaudiane e anche un arrotondamento economico al magro stipendio einaudiano. Ma è l'inizio della fine del loro rapporto con lo Struzzo, che non gradisce questa loro attenzione per una «letteratura di consumo». Il primo a fame le spese è il «più debole» Lucentini, e pare ci fosse nei suoi confronti- una dura presa di posizione di Franco Fortini, il super-impegnato, costretto, dopo una accesa discussione con Giulio Bollati, a dare le dimissioni. Carlo Frutterò per solidarietà, e pur fra molte difficoltà economiche (gli è da poco nata la prima figlia), rassegna anche lui le dimissioni. Dopo un po' di tempi difficili è anche l'inizio della loro fortuna, della loro indipendenza. Va bene Urania, vanno bene le antologie. Frutterò tiene rapporti con Milano e con tutti, Lucentini continua ad occuparsi di gnostica e metafisica e a viaggiare, con la moglie Simone, fra Torino e Parigi, traduce I mandarini della De Beauvoir, parla al telefono con Vittorio ■Sereni e progetta un libro di lettere filosofiche con Calvino. Lascia le incombenze pratiche, dalle quali non saprebbe districarsi o che lo vedrebbero, per noia, rovinoso, all'amico Frutterò: è lui che discute libri e articoli per i giornali e le riviste, che solidifica i contratti. Lui che gli fa i resoconti quotidiani di ciò che sta vivendo il mondo. Ma sul lavoro di progettazione e di scrittura diventa inflessibile, maniacale, disposto alla rissa o allo sfibramento per una virgola, un punto e virgola, sorretto dalle sue quaranta sigarette, Gauloise o Carnei, di cui non sente neppure più il sapore ma il piacere meccanico del gesto. Vede e rivede i capitoli, da La donna della domenica a La morte di Cicerone, controllando frase per frase, tic e modi di vestire e gesti dei personaggi con mania calità. Guarda alla scrittura del- la «ditta», a quel «terzo scritto re» con certosina severità, Ogni tanto andava a vedere una partita di pallone in tivù da Frutterò, ma gli andava sempre male perché finiva ze ro a zero. Ogni tanto si lasciava convincere a prendere un treno, ma i ritardi lo prostravano . psicologicamente. Non voleva sentir parlare di aerei e aeroporti. Ipotizzava, vicino ad ogni aeroporto, un circo con belve feroci che al suo arrivo al gate di partenza sarebbero fuggite dalle gabbie per arrivare ad artigliarlo. Così la piccola, malferma Peugeot gli rimaneva il ronzino più affidabile per affrontare qualsiasi viaggio, dopo un'ispezione alle luci, alle frecce di direzione, alla pressione dei pneumatici. «Altissimo, fragile, aquilino. era, anche nell'aspetto, nel modo di muoversi e di parlare, un perfetto "estraneo", l'impassibile abitatore di un tempo privato, appena tangenziale al nostro. A nessuno sarebbe venuto in mente di chiedergli una presa di posizione, una firma di protesta, di porgergli un microfono sulla pubblica piazza; ma neppure, d'altra parte, di rimproverargli la sua rigorosa ritrosia, di poeta. Anzi». Questo veloce ritratto di Beckett, scritto da F&L, vale come autoritratto di un Lucentini privato, fuori «ditta», extrasodalizio amicale con Frutterò. Un Lucentini che, di tanto in tanto, tornava a scrivere in prima persona racconti borghesiani nei quali una «papilio dinardensis», la bianca farfalla di Dinard cara a Montale, svolazzando sulla pensione «Gli Oleandri», ai Ronchi, spìa i manoscritti di Frutterò e quelli di Lucentini e poi va a riferire al futuro Premio Nobel immagini e suggestioni. Un Lucentini tornato ad essere solo, vagabondo e sognatore. Dai tempi dell'Einaudi esploratore dèlie trattorie tipiche, in cui controllava pignolescamente l'allestimento delle tavole Viveva in una casa foderata di libri senza la televisione, l'altro guscio era a Fontainebleau, su un canale come in un romanzo di Simenon Aveva la faccia da legionario di Cesare col sorriso dell'uomo buono e disarmato Laureato in filosofia emigra a Parigi dove fa il massaggiatore nelle palestre per signore Franco Lucentini un viaggiatore che non amava i treni e non voleva sentir parlare di aerei. Si spostava con una vecchia Peugeot di cui ogni volta controllava luci frecce di direzione e pressione delle gomme