Le RIME nei SECOLI di Maurizio Cucchi

Le RIME nei SECOLILe RIME nei SECOLI POESIA Maurizio Cucchi SECOLI di poesia ci hanno tramandato innumerevoli opere che hanno resistito al tempo. L'ideale potrebbe essere forse scegliere a caso, prendere da un grande mucchio preselezionato i primi dieci libri che ci capitano, e con quelli partire per l'isola deserta. Dovendo scegliere, per evitare di fermarmi agli antichi (per i quali già dieci libri sarebbero pochi), decido di partire dal Medioevo, da Dante, e dunque dalla «Divina Commedia». Niente di più ineccepibile e ovvio, lo so. Niente di più insuperato e necessario a chiunque, però, anche a chi di poesia non si interessi affatto. L'energia impressionante del linguaggio che si incanala nel progetto, la capacità di passare dal registro basso e dalle circostanze anche miserabili alle luci del paradiso, l'insieme di sentimento e dottrina, di pietà e invettiva, di racconto e accensione lirica, di poesia civile, religiosa e filosofica ne fanno un'opera che da ogni parte la si prenda è sempre nuova, sempre da amare, incessantemente da riusare. Forse, per evitare esclusioni infami, anziché dieci libri ne basterebbe uno, proprio questa formidabile enciclopedia in cui possiamo sempre rispecchiarci. Se proprio è necessario scegliere, dunque, tra Dante e Petrarca, anch'io come moltissimi scegherei il primo. Ma la lirica petrarchesca è una grammatica, è l'idea stessa della poesia lirica poi tramandata e trasmutata in innumerevoli altre figure ovunque. Il «Canzoniere» è un miracolo della lingua, a volte approda a esiti di una semphcità che ci arriva intatta attraverso i secoli e ci fa venire i brividi per la sua purezza. "Che fai? Che pensi?" può passare dal Trecento al Novecento, da Petrarca a Luzi come niente fosse. Prediligo peraltro le scritture violente, oppure irsute, ruvide, frutto di esperienze ardue come quelle di Frangois Villon, il grande francese quattrocentesco che un giorno partì per chissà dove senza lasciare tracce di se stesso. Ma lasciandoci le sue Poesie, come «La ballata degli impiccati» o «La ballata delle dame del tempo che fu». All'asprezza arcaica della prima, alla sua preghiera disperata, alla presenza di quei corpi lavati dalla pioggia, disseccati e anneriti dal sole, risponde la nostalgica delicatezza del rie do delle dame di un tempo: "Mais ou sont les neiges d'anten?". E qui faccio un salto spettacolare e anche parzialmente insensato e arrivo nientemeno che all'Ottocento. Il primo che scelgo è un altro dei più necessari e amatissimi, Giacomo Leopardi. Per i «Canti» continua a impressionarmi la sua capacità di mettersi frontalmente davanti air'apparir del vero", senza farsi annichilire, innamorato com'è, del resto, della semphee scena naturale del mondo. E anche in lui quei ritagli di meravighosa semplicità della parola, quelle armonie delicate dentro l'angoscia e l'arrovellarsi... Tra i nostri grandissimi di tutti i tempi ho sempre considerato i due dialettali Belli e Porta. Non saprei chi sceghere, e allora indico il primo per la maggiore facilità della lingua, riservando però il secondo ai milanesi. Entrambi sono grandi narratori in versi. Porta in forme più distese, poematiche, Giuseppe Gioacchino Belli nella fenomenale concentrazione, nella perfetta economia del sonetto. La sua capacità di trasformare la sordidezza in altissima visione è impressionante. Pensate alla poesia «Er lupo manaro», dove c'è r'omo-bbestia", che a un certo punto "diventò animale Z e sse n'aggnede a urla ssur monnezzaro", prima di aggredire sua moglie, che pure aveva avvoltilo, dicendole di stare attenta, di non aprire, "che ssi nnò, Rrosa, te sbramo" (con quest'ultima parola che include amare, sbranare e bramare). Immenso. Arrivo allora a «I fiori del male» di Charles Baudelaire il padre della poesia moderna. Per le associazioni e le corrispondenze, per la ricerca delle armonie misteriose, per la solennità del suo genio lirico proiettato sotto i coperchi dell'angoscia, nel paesaggio urbano di cui è sommo cantore, per i rivoli della sua sensualità. La città e la donna, come quella meravighosa Passante che vede per un attimo, che vorrebbe amare, e gli sfugge veloce nel caos di Parigi. E con lui il fanciullo poeta, Arthur Bimbaud, il vagabondo capace di mettere i piedi («Au cabaret vert») sotto un tavolo d'osteria e godersi la meravigliosa sospensione di una sosta davanti a un piatto di prosciutto. Ma anche di sognare una dolcissima fuga, d'inverno, in un vagone rosa («Révé pour l'hiver»). Ma questo è un Rimbaud minore, direte. Forse è vero, ma certo non trascuro il visionario del «Battel¬ lo ebbro», i passi realistici fino all'espressionismo delle «Strenne degli orfani del Buffet» o delle «Cercatrici di pulci», e scusatemi se vado a memoria e dimentico cose. Un genio orrendamente precoce che penetra a tal punto nel reale che appare e nel suo rovescio, da scorgerne le fratture e le lacerazioni, fino a vederlo o a esprimerlo trasfigurato. A questo punto ho solo pochissimi nomi da spendere, potendo pescare in un elenco vastissimo: quello di tutto il Novecento. E in più non sono in grado di riferirmi concretamente ai pur amatissimi Holderlin, Rilke e Celan perché posso leggerli solo in traduzione, e dun¬ que amarli per interposta persona. Riparto allora dall'ambigua mitezza insinuante dei «Canti di Castelvecchio» di Giovanni Pascoli. Un libro la cui melodia si fa ingannevolmente dolce, per rivelarsi tagliente e ferirci con la sua sensibilità ossessiva, accoppiata a una prodigiosa abilità nell'uso dei materiali linguistici. E perché negare, in fondo, il diritto a una dimensione del patetico? T.S. Eliot è stato forse il primo poeta che ho amato. «Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock» mi ha rivelato, da ragazzo, possibilità inedite per la poesia, come la frequentazione di una dimensione prosastica, l'uso di movimenti narrativi e di situazioni quotidiane in un contesto di elevatissimo livello intellettuale e di raffinatezza formale indiscutibile, con mescolanza di registri e senza traccia d'enfasi. E se c'è Pnifrock come potrebbe non esserci Arsenio, e dunque Eugenio Montale? Grandissimi i suoi primi tre libri, e autentica grammatica della poesia italiana del Novecento sono state «Le occasioni». Appunto dopo Arsenio, compreso nella seconda edizione di «Ossi di seppia», in testi come «Dora Markus», «La casa dei doganieri», «Notizie dall'Armata» risuona più che nell'opera di ogni altro autore del tempo, il senso e il timbro della poesia italiana del Novecento, che li si ami o meno. E ai viventi, mi auguro, la prossima puntata. SI DISCUTE LA RIFORMA DELLA SCUOLA, SI RISCRIVONO I PROGRAMMI: QUALI SONO LE LETTURE FONDAMENTALI NELLA FORMAZIONE DI UN GIOVANE STUDENTE? ABBIAMO CHIESTO Al NOSTRI COLLABORATORI DI INDICARE «DIECI TITOLI BASE» PER OGNI DISCIPLINA TERZA PUNTATA DELLA NOSTRA «BIBLIOTECA D'AUTORE»: E' LA VOLTA DELLA POESIA CHE INCOMINCIA DA PADRE DANTE PER DIPANARSI FINO A MONTALE, NON DIMENTICANDO I GRANDI POETI DIALETTALI | II 1 «Biblioteca d'autore», r ie estiva di ttL, lustrata da tteo Pericol i i li dllii liriisituazioni quotidiane in un contesto di elevatissimo livello inlll di ffi fLe RIME nei SECOLI La «Biblioteca d'autore», r serie estiva di ttL, è illustrata da Matteo Pericol

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