I «grandi vecchi» a Kabul il figuro afghano

I «grandi vecchi» a Kabul il figuro afghano I «grandi vecchi» a Kabul il figuro afghano Droghi parte del pae5e corichili rappresentanti del grande mosaico di clan ed etnie5. Una grande festa che nasconde lina battaglia politica analisi Minimo Candito HANNO viaggiato per un lungo numero di giorni, lasciandosi alle spalle frontiere anche lontane, dalla Cina al Beluchistan, dall'Uzbekistan al Tagikistan; alcuni si sono messi sulla pistagià una settimana fa, a dorso di mulo, e soltanto ora arrivano a Kabul. Sono mille grandi vecchi. Con le loro barbe bianche, i loro turbanti polverosi, le tuniche strapazzate dalle fatiche di un'trasferimento difficile, dentro un Afghanistan senza strada, senza sicurezza, senza esercito, ora dovranno decidere il futuro del proprio Paese. Molti arrivano a Kabul per la prima volta nella loro vita e scoprono una città che le rovine della guerra (la guerra dei mujaheddin prima, ora quella degli americani) hanno trasformato in un disperato scenario di macerie, di miseria, d'interi quartieri che bombe missili e cannonate hanno sventrato con una pervicacia feroce, puntigliosa, quasi scientìfica. Tra loro c'è ancora chi dubita che gli americani l'abbiano vinta davvero, la guerra d'Afghanistan. E pensa a Osana bin Laden e al mullah Onìar inseguiti con satelliti e spie per 9 mesi dal cacciator di taglie George W. Bush, e ora infrattati più o meno tranquillamente in qualche remoto villaggio della Frontiera del NordOvest. Pensa anche alla riappropriazione che i «signori della guerra» (Dostun, Khan S- Co.) hanno completato nei territori conquistati dai propri miliziani, con il rischio che si tomi di nuovo alle vecchie pratiche di un Paese trasformato nella prateria di selvagge scorribande belliche, dove tutti danno la caccia a tutti. C'è invece chi - sapendo bene che le guerre non si dichiarano mai per gli scopi veri che le promuovono quel dubbio non ce l'ha affatto, e per conferma guarda serenamente alla fine comunque a Kabul del regime dei taleban, all'impiantamento di basi americane strategiche in Afghanistan e nelle repubbliche ex-sovietiche, alla firma in questi giorni d'un accordo per D gasdotto delTUnocal che trasporterà energia vitale dal Turkmenistan ai porti del Pakistan sul Golfo (in attesa che questo gasdotto venga presto accompagnato dal pingue oleodotto che affonderà le Re Zah sorgenti nelle ricchezze del Caspio). La riunione, domani, della ((Loya Jirga» potrebbe aiutare a capire quale delle due tesi sia più vicina alla realtà, ; sciogliendo i dubbi, almeno, sulla tenuta del progetto pohtico che stava dietro l'operazione Enduring Freedom. La «Loya Jirga» è una struttura istituzionale che potremmo tradurre come Grande Consiglio Tribale, ed è una sorta di Parlamento che -secondo una tradizione datata già al Settecento - viene convocato in circostanze eccezionali, per nominare un nuovo Re o decidere ima riforma costituzionale. I suoi membri non sono «deputati» eletti con voto popolare, ma tutti i capi tribù, i capi religiosi e i leader etnici d'un Paese che è un mosaico di clan, gruppi, razze, e di questo mosaico esprime negli scanni della «Loya Jirga» una rappresentanza approssimativamente proporzionale (i pashtun sono circa il 60 per cento della popolazione afghana, poi ci sono i tagiki con il 19 per cento, gli uzbeki con il 13, gli hazara con il 6, e l'ultima minoranza'dei turkmeni al 2-3 per cento). La convocazione del Grande Consigliò era quanto Bush e Cheney si proponevano l'anno passato, nella progettazione di un futuro pacificato dell'Afghanistan.- E di questo Consiglio doveva essere patriarca e mentore il vecchio re Zahir, che dal 73 stava in esilio a Roma. In realtà i tagiki del Fronte Unito, che il 14 novembre si sono impadroniti di Kabul, violando con l'appoggio di Putin il patto che voleya la capitale libera da truppe d'occupazione, hanno imposto che D rientro in patria del re avvenisse come «il viaggio di un semplice cittadi¬ o» no afghano»: lo hanno alloggiato in una residenza privata, non nel Palazzo reale, e lo hanno tenuto sotto stretto controllo per evitare die, conquistandosi il ruolo politico di padre della patria, potesse favorire la sua etnia, dei pashtun (l'arrivo di Zahir Shali coincise con un singolare blackout della tv di Kabul, che non «riuso» a trasmettere la festa popolare e lo spontaneo tributo di omaggi che hanno accompagnato il ritomo a casa del vecchio monarca). Mal mascherato sotto la grande festa della ((Loya Jirga», un confronto aspro domina r più o meno segretamente - la battaglia politica che ora deve decidere quale Afghanistan seguirà il regno breve dei taleban: i tagiki, che controllano i quattro quinti del governo e l'approssimativo esercito nazionale (dove 36 generali su 39 sono stati nominati dal neoministro della Difesa, Fahim, tagiko come i suoi colleglli degli Esteri e degli Interni) hanno ben poca intenzione di allentare la presa ferrea imposta al Paese e sancita con IVaccordo nazionale» di novembre in Germania; Hamid Karzai, invece, che è pashtun e .che guida il governo interinale - ma in realtà è poco più di un ostaggio dei tagiki - vuole redistribuire il potere, recuperando alla sua etnia la forza e il domìnio che la tradizione conferisce all'egemonia nazionale delle tribù pashtun insediate nelle provincie del Sud e dell'Est, al confine con il Pakistan (la «linea Durand» inventata dagl'inglesi sul finire dell'Ottocento è poco più d'una convezione in una frontiera dì fatto inesistente). I mille grandi vecchi sanno bene di questa guerra segreta, che non ha missili né satelliti ma può diventare altrettanto distruttiva di quell'altra arrivata dal cielo. E sanno bene dei malumori che serpeggiano tra la la loro gente, per gli «stranieri» che si sono insediati nel Paese. Gli afghani sono un popolo duro, di montagne aspre e solitarie, hanno una tradizione orgogliosa di indipendenza, sopportano male chi mette il naso nelle faccende di casa loro; e quando fecero fuori i sovietici dell'Armata Rossa, per dirimere le proprie controversie incominciarono a prendersi a cannonate (fin che arrivarono i taleban e gl'imposero il silenzio). Ventitre anni di guerra possono però stancare anche un afghano, le speranze, della «Loya Jirga» ci puntano sopra. Re Zahir, rientrato a Kabul come «privato cittadino»