A casa di Ibrahim braccato nella chiesa

A casa di Ibrahim braccato nella chiesa IL VILLAGGIO DOVE E' RACCOLTA LA PIÙ' IMPORTANTE FAMIGLIA DELLA TRIBÙ' TA'AMR A A casa di Ibrahim braccato nella chiesa Una giornata con la famiglia Abayat, che ha otto uomini bloccati con i frati. La moglie gli parla al telefono: «E' sempre stato un militante, se lo manderanno in Italia trattatelo bene». Le colpe «solo di Sharon» reportage Fiamma Nirenstein BETLEMME TE' alla menta, la foto dello sceicco Yassin e di molti «martiri» sulle pareti, il velo sul viso della padrona di casa, bam-ì bini che escono da tutte le parti, l'orgoglio della tribù nel voljio dei maschi, la sala di preghiera con la foto della Mecca per ' ricordo. Gli Abayat hanno ben 8 membri della loro famiglia beduina dentro la Chiesa: la storia vera di Betlemme non è solo nella Piazza della Mangiatoia, e neppure nella basilica stessa della Natività, né sotto i tank che sollevano da 36 giorni la polvere della città dove è nato Cristo, mentre gli armati palestinesi occupano la Chiesa. Per trovarla nelle sue radici, bisogna avventurarsi in un' ora di coprifuoco verso un quartiere in collina, pietroso e punteggiato di case, da cui si vede la chiesa dopo gli ulivi e oltre i pascoli delle capre. La chiameremo Abayatland, dal nome della famiglia beduina degli Abayat, la più prominente famigha della tribù Ta'amra, pastorale, affaristica e soprattutto guerriera. Questa famiglia ha otto membri, padri, figli, zii, cugini asserragliati dentro la Chiesa della Natività. La cronista si stropiccia gli occhi quando sente il numero. Otto, tutti dei vostri? Si, quattro probabilmente nella lista dei tredici irriducibili che fino a poche ore fa avrebbero dovuto essere esiliati in Italia e che invece trovano difficile destinazione, e gli altri nella lista dei 26 che ad ogni momento, se si perfeziona l'accordo, dovrebbero uscire. Entriamo a Betlemme nel primo pomeriggio, in pieno coprifuoco. Verifiche e domande al check point: varie jeep e un carro armato sono stazionati là vicino, sappiamo che sulla piaz¬ za ce ne sono due e che tutto l'apparato militare era in smobilitazione finché c'è stato il contrordine. Adesso, sola, la nostra macchina si avvia giù sul lato destro della Chiesa, un carro armato rolla proprio dietro di noi, e siamo in due: noi e il carro armato dietro, per un bel pezzo. Piano, senza scatti, con la targa italiana che fornisce una certa consolazione. Poi, l'incontro con il nostro bravissimo stringer palestinese e via su e giù per le stradine: i bambini appena fuori dalla città vecchia non osservano il coprifuoco, giocano a pallone, e i vecchi giocano a shesh besh sugli scalini di casa. Altri, non se ne vedono. Ma nell'Abayatland è diverso. Qui regnano le regole della famiglia, ricca, diramata, che consta di migliaia di persone. Quando arriviamo, gli Abayat stanno fuori, all'aria, parlando dei loro otto familiari chiusi in chiesa, di cui alcuni forse andranno in Europa. «Quando saranno in Italia, li aiuti», mi dicono. Parlano con toni molto duri di Arafat, che secondo loro li ha traditi; e degli israeliani, con odio. Gli attentati terroristi, davvero sembrano loro il rapporto più naturale con quel popolo «di occupanti, di oppressori, che ci prende la nostra terra». La terra davanti alla Moschea è a ulivi, le capre sono condotte dai bambini della famiglia. Molti bambini, moltissime capre. Molte case, molta terra. Ce lo confermano orgogliosi. Davanti alla moschea un gruppo di giovani uomini su cui gli abiti e l'atteggiamento, i baffi e le ma- ghette col coccodrillo, la gommina e la kefiah mischiano i segni della modernità e dell'arcaicità. Sono gentili e accoglienti. Ci mostrano a pochi metri un'auto sventrata: un elicottero israeliano vi freddò un altro Abayat, Hussein, 37 anni, nel novembre, con un missile. Accadde nel quartiere di Beit Sahur. L'auto è stata portata a casa, ora è come un monumento. Era accusato di essere un capo dei Tanzim, con molto sangue sulle mani. Tutta la famigha Abayat lo è. Suo fratello Ibrahim Mohammed Salem,' 40 anni, padrone della casa in cui entriamo, suo figlio Mohammed Ibrahim, 19 anni, suo cugino Naji di 29 anni, suo cugino Aziz Halli Mohammed Abayat Jubran, un altro Ibrahim Musa Abayat (Abu Galif), un preminente operativo dei Tanzim accusato di avere ucciso in un agguato l'ufficiale Yehuda Edri e una donna, e poi di aver rapito e ucciso un architetto americano. Tutti questi, quasi sicuramente, sono nella lista dei 13. Gli altri, nella lista di quelli che devono partire per Gaza. Ibrahim, il padrone di casa, secondo gli israeliani ha a che fare, e sempre in ruoli importanti, con la cellula che avrebbe gestito la zona di Beit Jalla usandola come una postazione armata contro Gilo, insistendo più di un anno. E' accusato di avere organizzato attacchi terroristi di Hamas. Gli altri non sono da meno, ma Ibrahim, che era già stato in un carcere israeliano due anni negli anni 90, è un grande capo di rispetto, grande barba, grande corporatura, 25 chili - mi dice la famiglia - persi nella cattività della chiesa. Sia le foto di Hussein che quelle dei suoi parenti, specie Ibrahim, sono di gente forte, baffuta, dura, armata di kalashnikov. La loro appartenenza è parte Fatah, parte Hamas. Il diciannovenne Mohammed, una faccia da adolescente ma un curriculum, secondo gli israeliani, di agguati e attentati vari, lo vediamo nella foto tessera che ci mostra la madre appena salite le scale di casa; è commossa, le si vedono solo gli occhi, di donna giovane, come finestre verde scuro fra le pieghe del velo nero. Il suo nome è Aisha, prima che me ne vada mi porta lontano dagli uomini, nella sala di preghiera della casa, si solleva il velo, ha una piccola faccia bidimensionale da ritratto medievale, una madonna che durante il colloquio con i maschi sfoderava toni da comizio: ma adesso è giovane come i suoi 37 anni, e a gesti, perché il traduttore non può entrare, mi dice che non dorme più, che piange, che vuole almeno rivedere il marito e il figho. Si indica gh occhi, fa il segno delle lacrime. La circondano parte dei figli: ne ha tre maschi e cinque femmine di cui una incinta. Perché suo marito è andato con tutto il resto della famigha dentro la chiesa? Lei alza le spalle: sembrava naturale, pensavano che i carri armati se ne sarebbero andati subito, magari dopo un paio di giorni, chi l'avrebbe detto che avrebbero insistito tanto. Forse davvero non è stata tanto una buona idea. L'Italia non li vuole, dice, perché gli israeliani li mettono su, e invece sono brave persone anche se sono doverosamente, spiega con passione, molto militanti, molto religiosi, membri di Iz ha Din al Kassam. Ovvero, il braccio armato di Hamas. Insieme telefoniamo al marito dentro la chiesa: da ieri hanno mangiato un po' megho, in attesa degli eventi, ma non si sa nulla, niente è chiaro, fa freddo dentro la chiesa, non si dorme, il figlio sta bene. No, non si sa quando si esce, informazioni non ne abbiamo, le dice il marito, si parla della Grecia, della Spagna, dell' Italia. Visti da questa casa sembrano luoghi della fantasia, e così certo pensa anche Aisha che dice «Italia» come direbbe «la Lima», e forse mroprio in questa inesistenza trova la consolazione che le manca in questo momento: se sono luoghi così lontani, forse non ci si può arrivare, forse i suoi tornano a casa da tutti quei bambini. A casa si è indetto il digiuno religioso il martedì e il giovedì, per fare compagnia spirituale ai rinchiusi. La carne è stata eliminata. Si prega molto. Fra i bimbi una sola, dodicenne, di nome Doha, già col velo in testa, vuole studiare da dottore. Hanna di 16 vuole dedicarsi al Corano e il piccolo Sohai, 10 anni, anche lui vuole essere un maestro. La vita è piccola e grande come i millenni, qui. I bambini piccoli hanno vestiti dai colori beduini. Chiedo a un altro cugino Wahed, che è il vicepresidente della famigha Abayat, un ruolo molto importante, se tutta la famiglia conosce l'uso deUe armi: i beduini sono fieri, mi risponde. Aisha racconta che per loro è del tutto naturale essere militanti: «Sempre mio marito è stato un fiero militante antisraeliano, dal momento che ci tolgono la libertà, che ci rubano la terra. E gli attentati terroristici, sono loro a volerseli, il colpevole è Sharon. Anzi: che ci vada lui in esilio. E Arafat, che difenda il suo popolo invece di consegnarlo agli israeliani. La pace? Il Corano non parla mai di due Stati per due popoh». Wahed è più possibilista: «Quando la pace verrà, noi vi parteciperemo di buon grado». Mentre parla al telefono col marito, Aisha tiene un tono di estrema confidenza, conversano a lungo, il marito racconta particolari di vita. Tutto avviene in chiesa, niente doccia, niente ricambi, cibo pochissimo, il bagno di là da un cortile che è molto pericoloso attraversare. E poi, una chiesa non è per loro un luogo familiare: «Anche se i preti sono stati come fratelli». Aisha racconta che si conobbero tanti anni fa quando i loro genitori li destinarono l'uno all'altro. Erano vicini di casa. «Sono corsa alla piazza quando sembrava che stessero per uscire. I soldati non ci hanno lasciato avvicinare, ma io vogho assolutamente vedere come stanno mio marito e mio figho dopo 36 giorni in Chiesa. Questo dovrebbero capirlo, in ogni caso». Preferirebbe una prigione israeliana, vicina, o la partenza per l'Italia, o per la Spagna? Certo, niente di tutto questo, risponde. Ma sia la moglie di Ibrahim sia Wahed sono sicuri, forse perché qualcuno glielo ha suggerito, che di certo in mano agli israeliani i loro familiari verrebbero uccisi, e che comunque non avrebbero diritto a un avvocato. C'è in loro una sfiducia totale nell'idea di dialogo, una sofferenza primaria e anche un'astuzia evidente che si esprime molto bene nella frase con cui Aisha risponde alla domanda su come potrebbe sopportare ima lunga lontananza: «Pregherò Allah che mi dia la pazienza. E comunque, non sarà tanto lunga la separazione. Torneranno presto, ce l'hanno promesso». 3 Gente forte, baffuta, dura, armata di kalashnikov; ma nella cattività della basilica il grande rispettato capo ha perso 25 chili A casa si è indetto il digiuno martedì e giovedì, per fare : i compagnia spirituale ai reclusi della causa palestinese. «Arafat difenda il suo popolo e non lo dia a Israele» Un gruppo di preti, accanto a una jeep israeliana, attendono all'alba di ieri nella speranza che la lunga crisi si sblocchi