Sfida all'ultimo ghiaccio dal Monte Bianco al Polo Nord

Sfida all'ultimo ghiaccio dal Monte Bianco al Polo Nord Sfida all'ultimo ghiaccio dal Monte Bianco al Polo Nord CIÒ che ricordo distintamente è il rumore: secco eppure a suo modo sordo, come una sorta di polistirolo che si spezzi. Poi la neve, dappertutto, turbinante negli occhi, davanti al sole, bianca contro i raggi dardeggianti del mezzogiorno. Mi sento irresistibilmente risucchiato verso il basso e ho appena il tempo di pensare: "Peccato, cadere in un crepaccio in una giornata così bella"». Si possono leggere almeno due citazioni nel racconto di Franco Brevini, ambientato sul ghiacciaio della Tribolazione del Gran Paradiso, che apre il libro Ghiacci: la famosa caduta nel crepaccio di Eugen Guido Lammer, discusso teoreta dell'alpinismo tra le due guerre, e l'ironia antieroica, tipicamente sessantottina, di cui Brevini è stato a suo modo interprete quando, giovanissimo, ha diretto la polemica rivista Rassegna Alpina. Tutto il libro è un impasto di esperienza reale ed elaborazione intellettuale, di emozioni filtrate attraverso il setaccio delle letture, di vecchi miti rivisitati con il linguaggio e i sentimenti del presente. Brevini non è un grande alpinista, e neanche un uomo d'avventura. Insegna Letteratura italiana all'Università di Bergamo, studia la poesia dialettale e collabora con alcuni giomah: reportage e critica narrativa. Ha scalato con passione molte cime deUe Alpi occidentali, poi è volato tra i ghiacci del Grande Nord con lo sguardo del cittadino colto e vagamente disincantato, per conoscere e raccontare il «ghiaccio»: «Cosa mi ha attratto nella sua disumana perfezione? Che cosa mi affascina in questa inerte bellezza?». Forse la metafora del ghiaccio come contraltare dell'umano. RECENEnCam IONE co nni soglia del limite, simbolo di mari e terre estreme. L'approccio potrebbe ricordare gli eruditi viaggiatori inglesi dell'Ottocento nelle desolate lande alpine, sempre muniti di penna e di taccuino, se non fosse che quei signori erano testimoni di frontiere ancora da esplorare e di imprese di là da venire, mentre oggi la testimonianza trova un senso nella rielaborazione letteraria delle sfide passate, op- pure si smarrisce nella ripetizione di gesti falsamente avventurosi: «Mi fa uno strano effetto essere qui in coda nella notte, impegnato in questa assurda processione che sa di iniziatico e di militare: tutti quanti con le luci sui caschi, strisciando fra le rocce gelate, verso una meta invisibile». La meta è il Cervino, «il più nobile scoglio d'Europa», la cima perfetta che ha fatto battere il cuore a generazioni di alpinisti e che, imbrigliata dalle corse fisse e insudiciata da decine di passaggi quotidiani, ammalia ancora co- me una donna senza età. Il ghiaccio ha molti colori, e anche un suo sapore. L'alba argentata sulla parete deUa Brenva incantò l'inglese Moore nel 1865 e lo guidò sulla «più affilata e paurosa cresta di ghiaccio che avesse mai visto». Era lo stesso anno del Cervino e di Alice nel paese delle meraviglie. Gh alpinisti di oggi, persi nel gelo primordiale del Monte Bianco, si possono completamente scordare i Tir che sbuffano nella pancia della montagna: «Procediamo tra blocchi di ghiaccio grandi come palaz- zi. Si direbbe che una spaventosa esplosione abbia frantumato la compattezza della calotta. E noi due sembriamo i malinconici sopravvissuti che si aggirano fra i relitti di quella ciclopica rovina». Ma molti chilometri più a Nord, là dove natura e civiltà si mordono a vicenda, il ghiaccio nasconde il dramma degh inuit decimati dall'alcol e dai suicidi, l'inquinamento radioattivo deUe scorie dell'ex Unione Sovietica disperse nel Mare di Barents, la subdola minaccia del turismo artico. Quasi diecimila persone han- no già raggiunto il Polo Nord, con le navi rompighiaccio, i sommergibili, gh elicotteri e le shtte a motore, privando di senso le parole di Umberto Nobile: «L'attrazione deUe regioni polari è irresistibile. Quel senso di assoluta libertà deUo spirito; quell'allontanamento da ogni cura di cose materiah che non siano queUe indispensabih all'esistenza; quel perdere valore di idee, principi, sentimenti che sembrano essenziah e importanti nel mondo civile». Anche gli alpini hanno conosciuto il pack durante i terribili mesi della Guerra Bianca. Due eserciti asserraghati sulle creste delle Alpi, due inverni senza tregua, trenta gradi sotto zero, tanto freddo da uccidere anche i camosci. 11 loro polo era il ghiacciaio deU'AdameUo, un mare di neve sospeso tra l'Italia e l'Austria. Una frontiera assurda, insosteni¬ bile: «Tra il gennaio e l'aprile del 1917 caddero dodici metri di neve. Si misurarono venti a centoquindici chilometri all'ora e le vedette.dovettero essere legate ai loro posti di osservazione per non essere spazzate via. Alle sentinelle bisognava dare il cambio ogni mezz'ora per evitare assideramenti, e quando rientravano i loro volti erano trasformati in maschere di ghiaccio. È orribile, ma ci fu chi pensò di servirsi della morte bianca per la guerra. I tiri deUe artigherie riuscivano a far cadere artificialmente le valanghe sugh accampamenti e sulle linee nemiche, come oggi si fa sui pendu che minacciano le piste di sci». Questo era il ghiaccio in tempo di guerra: resistenza ai limiti della vita. Lo si può apparentare alle tragiche epopee degh esploratori polari, forse c'è un nesso anche con le avventure estreme degh eroi-alpinisti negh anni esaltati del Ventennio, ma quanto è distante dai nostri giochi di ghiaccio! Le due piccozze lanciate sulle cascate gelate, il ghiaccio sotto le lamine degh sci, la fila dei pretendenti che ogni sacrosanto giorno d'estate salgono verso la madonnina del Gran Paradiso o la capanna Regina Margherita sul Monte Rosa. Eppure, anche nell'alpinista che pesta il ghiaccio del suo primo quattromila legato alla confortante corda di una guida c'è almeno una traccia, un fondo di memoria di quello spirito primordiale che tenne svegh i sognatori, quel soffio d'ignoto che spinse i pionieri a lasciare la strada conosciuta, quel sapore della sfida che ci tiene vivi. Perché, come scrive Brevini, «fin che al mondo restano luoghi selvaggi c'è speranza». UNA INERTE BELLEZZA, UNA METAFORA DEL LIMITE ESTREMO NEL RAPPORTO TRA UOMO E NATURA: ESPERIENZE ED EMOZIONI DELL'ALPINISMO NEL RACCONTO DI BREVINI RECENSIONE Enrico Camanni Franco Brevini Ghiacci Mondadori, pp. 298, 6 77,20 REPORTAGE Un gruppo di alpinisti scende dalla cresta dell'Aiguille du Midi nel massiccio del Bianco

Persone citate: Brevini, Enrico Camanni, Eugen Guido Lammer, Franco Brevini, Guerra Bianca, Moore, Umberto Nobile

Luoghi citati: Austria, Europa, Italia, Unione Sovietica