«L'errore di Sharon è stato di non lasciare uno spiraglio»

«L'errore di Sharon è stato di non lasciare uno spiraglio» PROFESSORE A PRINCETON ED ESPONENTE DELL'EBRAISMO AMERICANO DI SINISTRA «L'errore di Sharon è stato di non lasciare uno spiraglio» Michael Walzer: gli è mancato un progetto politico che Arafat o un suo erede avrebbero potuto cogliere. «L'Europa non ha più un ruolo utile» intervista Maurizio Viroli LA guerra e l'orrore del Medio Oriente sembrano infinitamente lontani, all'Institute for Advanced Study di Princeton. I prati e il giardino delle betulle hanno già i colori e i profumi della primavera. Al ristorante c'è il brusio di sempre. I più taciturni sono i matematici asiatici; i più loquaci sono, quest'anno, gli storici. Al tavolo della Scuola di Scienza Politica e Sociale Clifford Geertz ascolta l'ennesima teoria dei rituali religiosi; Albert Hirschman chiede dell'Italia. Ma per Michael Walzer la tragedia è vicina. Tocca, ancora una volta, il suo popolo e il suo mondo. L'ex Primo Ministro d'Israele Ehud Barak ha dichiarato in un'intervista pubblicata su questo giornale che l'offensiva militare israeliana era inevitabile, dopo gli attacchi terroris t lei. Ma ha aggiunto che «Israele ha perso nell'opinione pubblica mondiale la superiorità morale sui suoi avversari conquistata nelle guerre del 1948 e del 1967». «Ritengo anch'io che una forte risposta militare fosse inevitabile dopo la spaventosa ondata di terrorismo suicida. Non riesco a immaginare un governo democratico che non s'impegni a proteggere la vita dei cittadmi. Ma è vero anche che quest'iniziativa militare non ha ottenuto in Europa e nel mondo il consenso che accompagnò le iniziative mihtari del 1948 e del 1967. Quest'iniziativa militare è stata lanciata senza un progetto politico. Per questo è difficile, per chi giudica dall'esterno, capire se Israele stia combattendo per sconfiggere il terrorismo o per proteggere gli insediamenti nei territori occupati». Lei ha detto molte volte di sentire un legame morale e politico particolare con la comunità ebraica e con il popolo e lo Stato d'Israele. Perché un filosofo politico, e un critico sociale, può e deve essere legato ad un popolo? «Ho una risposta generale e una particolare. La risposta generale è che nessuna azione politica decente è possibile senza un senso di solidarietà per i tuoi concittadini. Anche il critico sociale più severo critica una società particolare; vuole cambiare una società particolare. Critica una società in particolare e non altre perché avverte un legame speciale con un popolo, con una storia e con una cultura. La risposta particolare è che sono nato negli Anni 30; ho vissuto la Seconda Guerra Mondiale e la distruzione degli ebrei; ho assistito con meraviglia alla rinascita di una politica ebraica con l'istituzione dello Stato d'Israele, nel 1948, quando avevo tredici anni. Queste esperienze hanno fatto nascere in me sentimenti speciali, il senso di un legame con la comunità ebraica, anche se è sempre stato un legame critico». Quando lei è andato in Israele c'era consapevolezza della tragedia che si avvicinava? «Vado in Israele quasi ogni estate, ed ero là anche l'estate scorsa. C'era già l'Intifada e il senso della tragedia era ben presente, anche se la situazione non era ancora al punto che ha raggiunto negli ultimi mesi. Tutti cercavano di capire perché la situazione fosse degenerata». Ha mai visitato i campi palestinesi? «Sì, sono stato nei campi vicino a Betlemme e nei vecchi campi che ora non esistono più. Non sono mai stato a Gaza. Ho provato sensazioni contrastanti. I campi palestinesi si stanno trasformando in città, assomigliano più a povere periferie urba¬ ne che a campi profughi nel senso classico del termine. Gli spazi sono ristretti, molte persone vivono miseramente. Ho provato un senso di sohdarietà per le persone e sdegno per i pohtici che rendono impossibile per loro una vita decente». Nel 1993 lei era alla Casa Bianca quando Rabin e Arafat firmarono gli accordi di pace di Oslo. Che cosa ricorda di quei giorni? «Ricordo che fu un momento di grande gioia. Per noi ebrei di sinistra fu una vittoria. Ma non si trattò di una vera e propria mediazione americana. Clinton organizzò la cerimonia e volle che Rabin e Arafat si stringessero la mano, cosa che l'uno e l'altro fecero con evidente riluttanza, soprattutto Rabin. L'accordo di pace di Oslo fu realizzato con negoziati diretti fra israeliani e palestinesi alle spalle degli americani. Purtroppo non credo che vedremo qualcosa di simile in futuro». Quali sono state le ragioni del fallimento degli accordi di pace? «Ci sono stati errori di calcolo da una parte e dall'altra. È difficile elencare quelli più gravi. Certo l'assassinio di Rabin è stato un disastro. Era un leader capace di portare Israele dalla sua parte nel processo di pace. Rabin, e anche Barak, hanno commesso un errore grave nel modo di affrontare il problema degli insediamenti nei territori palestinesi. L'uno e l'altro sapevano bene che dovevano fermare i coloni, ma decisero di affrontare il problema dopo aver raggiunto l'accordo completo di pace. Ritenevano in questo modo di avere maggiori probabilità di successo. Quella scelta si è dimostrata un tragico errore. Se avessero affrontato lo scontro con i coloni prima, avrebbero rafforzato i moderati palestinesi e indebolito la destra estrema israeliana. Al tempo stesso ci sono stati errori e calcoli sbagliati, e forse anche inganni, da parte dei leader palestinesi. Sappiamo ora che all'indomani dell'accordo di Oslo i palestinesi avevano incominciato ad armarsi in violazione palese del trattato. Gli israeliani scelsero allora di ignorare quelle violazioni o di protestare solo debolmente». Il terrorismo è moralmente e politicamente sbagliato. Senza giustificarlo possiamo cercare di capirlo? «Nessuno è in grado di capire quest' ondata di terrorismo. Nessuno l'aveva prevista. Dopo i primi attentati di terrorismo suicida, tutti pensavano che ci sarebbe stato un numero molto piccolo di persone disposte a farsi esplodere per uccidere civili innocenti. Ora sembra invece che i candidati al sacrificio siano molti. Sembra che l'intera società palestinese sia in preda a una sorta di psicosi collettiva. I genitori incoraggiano i figli a immolarsi e celebrano con la comunità il loro sacrificio. Non esiste una spiegazione per tutto questo. Ci sono stati nella storia esempi di oppressione più dura di quella che Israele impone nei territori occupati; ci sono esempi di sfruttamento e di sottosviluppo più gravi; ci sono esempi di violazioni più serie dei diritti individuali che non hanno dato origine a un terrorismo come quello die si è scatenato in Palestina e in Israele. Non può che essere un fenomeno religioso che sfrutta la condizione di oppressione, ma non nasce da essa». Gli esperti di Medio Oriente sono concordi nel rilevare che Arafat ha la grave responsabi¬ lità politica di non aver combattuto il terrorismo e di essersene più volte servito. «Il terrorismo è sempre stato uno degh aspetti della politica di Arafat, a cominciare dai dirottamenti aerei e dalle bombe nei supermercati e negli autobus, quando ancora non c'erano i terroristi suicidi. Il terrorismo è sempre stato un suo strumento di lotta politica. Afafat è convinto, anche ora, di poter, usare il terrorismo impunemente». Sharon sembra voler umiliare Arafat più che cercare la pace. «La debolezza della pohtica di Sharon sta nel fatto di non aver lasciato aperta una possibihtà di soluzione pohtica che Arafat, o un suo successore, avrebbero potuto cogliere. Ma l'idea che molti hanno in Israele è che i leader palestinesi or". "3 - S '"«ù non vogliono un piccolo Stato, ma sono convinti che lo Stato d'Israele farà la fine dei regni crociati, se i palestinesi sapranno lottare e resistere abbastanza a lungo, o sarà assorbitfo in un grande Stato palestinese, per effetto della pressione demografica. Ma chiudere Arafat nell'edificio di Ramallah è stato un errore. Alla fine Arafat potrà uscire e annuncerà al mondo di essere il vincitore, per il solo fatto di essere sopravvissuto». Vista dall'America, come giudica l'impotenza dell'Europa a svolgere un ruolo di forza di pace nella crisi palestinese? «Guardo alla pohtica europea da un punto di vista che non è esattamente americano, ma ebreo-americano. Ritengo che la politica europea abbia fallito in primo luogo con Arafat, e a causa degh errori compiuti con Arafat gli europei abbiano perso l'autorevolezza per spingere gli israeliani sulla via della pace. L'Unione Europea, o alcuni importanti Stati europei, avrebbero dovuto dire ad Arafat: "Non siamo più disposti a sostenere finanziariamente l'Authority palestinese se non parli pubblicamente, in arabo, al tuo popolo per condannare in maniera inequivocabile il terrorismo e per affermare che gli attacchi terroristici sono contro l'esistenza dello Stato d'Israele e non portano alla creazione dello Stato Palestinese, e che tu non intendi sostenerli in alcun modo". Se l'Europa avesse detto questo ad Arafat, avrebbe potuto dire agli israeliani che dovevano ritirarsi dai territori occupati e fermare gli insediamenti. Ma non lo ha fatto, e non ha neppure chiesto ad Arafat di rendere conto del denaro che ha ricevuto dagli Stati europei, parte del quale è stato usato per acquistare armi dall'Iran. Per questa ragione l'Europa non è in grado di esercitare un utile ruolo di mediazione pohtica». «L'accordo di Oslo fu frutto di negoziati diretti fra israeliani e palestinesi alle spalle degli americani: non accadrà più in futuro» Una donna palestinese tra I cadaveri in una casa del campo profughi di Jenin dopo la battaglia