Il Giorno dell'Olocausto nell'anno delle stragi

Il Giorno dell'Olocausto nell'anno delle stragi MEMTRE SUONAVA LA SIRENA LA TV SIRIANA TRASMETTEVA UN DOCUMENTARIO SU «SIONISMO E NAZISMO» Il Giorno dell'Olocausto nell'anno delle stragi Quando Israele si ferma per ricordare giungono notizie di nuove vittime reportage GERUSALEMME LA vera storia della Shoah e Israele, al di là di molte varianti specifiche, è quella di un'incredibile riabilitazione di massa di vite bruciate nell'orrore, perdute nell'indicibile; è la storia, che non sta negli archivi, della tenacia dell'essere umano quando trova dove appigliarsi, della lenta ripresa di interessi, degli affetti amicali e familiari nella protezione del nuovo Stato ebraico, la promessa della sicurezza, della casa. Ieri, Giorno dell'Olocausto, Yom Ha Shoah, in Israele non poteva essere come gli altri. «Era il mio primo Giorno dell'Olocausto come soldato ha detto alla radio Ofér, di Natanyam, dove è avvenuta la strage di Pasqua -e quando è suonata la sirena del ricordo dei Sei Milioni, i nostri morti di oggi erano là a guardarci interrogativamente, con loro. E' difficile per un ragazzo spiegarsi come mai gli ebrei dopo tanto soffrire, dopo tanto lottare, non siano arrivati ancora a vivere in pace a casa loro. Perché dobbiamo vedere ancora tanti bambini, vecchi, donne ebrei uccisi intenzionalmente, per le strade». Nella forma, la Giornata dell'Olocausto è andata avanti secondo il cerimoniale. Lunedì sera, nella notte fredda eli Gerusalemme, al Monte Hertzl, al Museo della Shoah, l'accensione con le fiaccole di un grande braciere della vita da parte della generazione dei sopravvissuti insieme con i giovani. Poco lontano dal Museo dei Bambini che nel buio recita uno a uno i nomi dei piccoli uccisi nei campi mentre una candela si riflette milioni di volte nel buio, il vento soffiava sulle tombe di Yitzhak Rabin, di Golda Meyr, di Moshe Dayan, degli eroi sionisti che restitui- rono la vita a un popolo che sembrava finito per sempre nell'orrore e nella morte. Da ieri mattina tante cerimonie, un gran convegno sull'eredità morale e culturale della memoria, la tv e la radio che trasmettono per ventiquattr' ore voci sommesse di sopravvissuti, miracoli, orrori indicibili, traversate a piedi dall' Europa per raggiungere la terra d'Israele. E, punto centrale della giornata, la sirena che alle dieci risuona sulle autostrade, nelle città, e tutti si immobilizzano sull'attenti formando una catena ideale di speranza e di continuità con i trucidati di 50 anni fa. Ma la sirena aveva una voce più sorda quest'anno. Ai tempi del processo di pace l'elaborazione del lutto faceva sgorgare lacrime limpide. Si poteva piangere in pace. Il cantante Yehuda Polliker cantava allora una canzone sulla Shoah che fece molto scandalo: «Fa male, ma meno; meno, ma fa ancora male», diceva. Oggi è diverso. Alla cena della strage di Pasqua almeno cinque delle vittime erano sopravvissuti, che avevano con dolorosa e quotidiana volontà inventato uno stupefacente recupero: figli e nipoti, lavoro, interessi vari, sport, affetti e impegno sociale. Ma, per esempio, George e Hana Yacobovich rompono, come anche Marianne Leman, questa storia bella: i primi due, marito e moglie, nascono in Romania nel 1923. A scuola insieme, sul medesimo treno verso Auschwitz, George salta dal treno, riesce a fuggire. Hana arriva alla famigerata rampa con padre, madre e fratelli. I suoi vengono selezionati e gassati all'arrivo, lei attraversa l'inferno e ne esce viva. Le strade dei due convergono dove è possibile immaginarsi ancora di andare avanti, in Israele, e nel '79, ciascuno dopo un matrimonio finito e con due figli a testa, George e Hana mettono finalmente insieme la memoria e la speranza: i due compagni di scuola si sposano. La sera della cena di Pesach i due invitano a Natanya André, un figlio di Hana, con la moglie e due figlie. Il terrorista suicida, in mezzo a un mare di sangue (27 morti) ha ucciso George sul colpo, Hana lotta fra la vita e la morte, André è stato ucciso e così sua moglie, le nipoti sono ferite, ancora all' ospedale. Un'altra storia: Marianne Leman, di 76 anni, per quattro anni durante la guerra era entrata e uscita da un armadio di una vecchia casa in un villaggio fra la Francia e la Germania, nell'incubo dei nazisti che periodicamente irrompevano a caccia di ebrei. Il suo sogno di recupero, di vita era nient'altro che Israele, la promessa che anche l'essere umano più perseguitato possa avere una rifugio, una casa. Quest'anno Israele sente che la casa non è sicura, che chi è approdato non lo è veramente. Inoltre ieri, proprio nelle ore della memoria, la tv siriana trasmetteva un documentario intitolato «Sionismo e nazismo» in cui riproponeva di nuovo la indegna comparazione che risuona spesso in queste ore anche nell'informazione palestinese, e che anche intellettuali europei come Saramago non si peritano di vezzeggiare. E che disturba assai l'indispensabile dibattito, che è tutt'altra cosa, sulle responsabilità morali di un popolo che ha tanto sofferto, e che deve comunque seguitare a porsi le domande che talvolta in battaglia vanno perdute, ovvero quelle sulla sempiterna, continua e comunque indispensabile umanità dell'avversario, persino quando è un terrorista. «Per la prima volta ho vissuto questa ricorrenza da soldato. E' difficile per me capire perché dopo tanto lottare non viviamo ancora in pace» Il premier israeliano Ariel Sharon depone una corona al memoriale Yad va Shem a Gerusalemme