MARONI «Non posso dire che non me l'aspettavo» di Giovanni Cerruti

MARONI «Non posso dire che non me l'aspettavo» Il WHWISTRO DEL WELFARE RICORDA LA COLLABORAZIONE CON LAWIICOUCCISO MARONI «Non posso dire che non me l'aspettavo» personaggio Giovanni Cerruti SUL tavolo della cucina quel che resta di un pranzo svogliato e nervoso: insalata, biscotti, mezza birra. Venerdì scorso, il 15 marzo. Nella villetta di Lozza, appena fuori Varese. Dovrebbe essere una bella giornata per Bobo Maroni, è il suo compleanno. La moglie è al lavoro, i tre figli a scuola. Nella cassetta della posta la copia del quotidiano «La Padania» con gli auguri scherzosi dagli amici di barca a vela e zingarate. Ma sul tavolo del salotto c'è una copia di «Panorama», il settimanale che rivela gli allarmi dei servizi di sicurezza. Il giorno prima Maroni aveva già letto le anticipazioni sulle agenzie. «Sono preoccupato per Biagi. Appena tomo a Roma scrivo una lettera a Scajola». Non sarebbe stata la prima, è stata l'ultima. «Non la scrivo per me, il più esposto è lui. Bisogna fare assolutamente qualcosa». Ma cosa? Era da giugno che la sua segreteria aveva ben presente i rischi. E a fine ottobre il professore aveva inviato con la posta elettronica una lettera amara, delusa. «Me ne parlava con grande serenità, attento a non mostrarsi mai angosciato», ricorda Maroni. E' che l'angosciato era ed è proprio Maroni. Come quel venerdì a casa, quando il tg manda in onda da Barcellona l'intervista a Sei-gio Cofferati: «Dopo le decisioni del Consiglio dei ministri il governo ha scelto la strada dello scontro sociale». Maroni quasi si rovescia addosso il caffè: «Ma perché parla così?». Ecco, angosciato. In jeans e lacoste verde non sembrava un ministro, un simbolo del potere. Piuttosto un uomo di 47 anni che si accorge di vivere pericolosamente. «Gli anni di piombo - dice adesso - io li ho vissuti da lettore di giornali. Non conoscevo questo ! dolore, questa impotenza, questa violenza che ti porta via un amico, un collaboratore Unico, e lo porta via a tutti, al governo, al mondo del lavoro, all'università». Non è il momento delle interviste, perché «le parole non contano». L'altra sera, prima di telefonare a casa, a Lozza, ha voluto parlare con la signora Biagi. «Sapevo che era preoccupata, e il professore era preoccupato per lei». Quel che si sono detti lo terrà per sé. «Non posso dire che non me l'aspettavo...». Non può, Bobo Maroni. «Posso dire di aver fatto il possibile e anche di più, ma non mi basta». Si erano conosciuti a giugno e al ministro era piaciuto subito. «Lo chiamavo "il-mio Professore", in pochi minuti siamo passati dal lei al tu». Si erano parlati lunedì, al telefono: «Ho una proposta nuova é interessante, quando ci vediamo ti racconto». Sempre lunedì, da Verona, Maroni aveva chiamato la sua segreteria: «Preparate la lettera per Scajola e appena è pronta leggetela a Biagi. Il Professore non può più andare in giro senza scorta». Martedì pomeriggio l'hanno letta al professore, era in stazione a Modena. «Grazie, lo dico subito a mia moglie». Eppure Maroni è stato ministro degli Interni. Per soli otto mesi, d'accordo, ma una certa esperienza (sia pur breve) non si dimentica. «Da giugno chiedevamo di aumentare la scorta e ad ottobre ghelbanno addirittura tolta». Per carità, non è questo il momento delle polemiche, dei responsabili, delle burocrazie ministeriali e prefettizie. «Tanto non servirebbe a niente». Nello staff di Maroni c'è chi ricorda una data, 23 settembre 2001. Una lettera a Giuseppe Romano, il prefetto di Roma. Il giorno dopo il prefetto finisce agli arresti e la lettera non avrà risposta. Ne parte un'altra, e altre ancora. «Come se la prefettura ignorasse il ruolo di Biagi, come se i pericoli fossero svaniti». Quel venerdì a Lozza, quando non riusciva a festeggiare il compleanno, Maroni aveva parlato di Biagi con gratitudine, quasi con affetto. «Una cosa che ci unisce è il senso di fastidio per tutte queste strumentalizzazioni. Vogliono farci passare per quello che non siamo, per uomini della Confindustria o della destra». Inutile domandare chi li vuol far passare così, in tv Cofferati aveva appena finito di parlare. «Non sono e non siamo nemici dei lavoratori, io questa accusa la vivo come un'offesa». E Biagi pure. «E' questo il clima che non mi piace», diceva venerdì. E guardava fuori dalla villetta, dove non c'era né una volante della polizia né la bicicletta del vigile di Lozza. Ministro e solo. Non fosse leghista, non abitasse in questa villetta, non fosse attaccato alla normalità della vita - su e giù in aereo con Roma, la sua macchina al parcheggio di Malpensa o Linate - Maroni si sarebbe magari comportato in altro modo. Come l'altra sera, appena saputo dell'assassinio del Professore. Tutti in tv a dichiarare, tutti a rilasciare interviste. Tutti meno Bossi, Castelli e Maroni, i tre ministri padani. In silenzio. Impotenti e soli. Immobili, come Maroni in aula mentre parla Scajola. Gli occhi al soffitto, i nervi delle mani che si accaniscono sulla penna stilografica, i pensieri altrove. Fini che gli passa un foglietto e lui nemmeno se ne accorge. «E' vero, ero lì e non ero lì. Non sentivo, stavo male...». Da ieri Maroni e il suo staff, fa sapere il Viminale, hanno la scorta rafforzata. «Rafforzata? Ma se non l'avevamo!», scatta un collaboratore. Ancora lunedì, dal Viminale, segnali di quiete, non preoccupatevi, è tutto sotto controllo... Ed è questo che aggiunge dolore al dolore. Dover pensare che il Professore non c'è più perché le burocrazie prefettizie - così ostili al Maroni ministro degli Interni - non sono riuscite ad organizzare la protezione. Ci ha messo meno, molto meno, un agente di Varese, uno della scorta del '94. Appena ha saputo si è presentato alla villetta di Lozza. «Signora, da questo momento non si preoccupi. Anche a costo di mettermi in ferie io da qui non mi muovo». L'altra notte, a Roma, è tornato a casa alle tre. Per cena un' arancia. Aveva seguito le interviste in tv e le dichiarazioni alle agenzie. «Mi hanno fatto piacere le parole di Bassolino, una persona sensibile». Come ieri gli ha fatto piacere la telefonata di Romano Prodi: «Roberto, sto andando a Bologna a trovare la signora Biagi. Vuoi venire con me?». Ma nessuna telefonata, nessuna dichiarazione riesce a farlo sentire meno solo, meno angosciato. «Non posso dire che non me l'aspettavo, ma so di aver fatto tutto il possibile», si ripete. Per Biagi e per gli altri come Biagi. Per chi, e lo dice con prudenza, «può rimaner vittima di questo pessimo clima di individuazione del nemico da colpire». La segreteria telefonica è intasata di messaggi. Richieste di interviste. «No, non voglio dire niente. Non voglio alimentare né polemiche né strumentalizzazioni. Vorrei solo, e lo dico pensando al Professore, che la si smettesse con certi toni e si tornasse al dialogo con i sindacati e le parti sociali». Venerdì, quando parlava delle sue preoccupazioni per il suo Professore, quando in tv ascoltava Cofferati, si era ricordato del convegno della settimana prima, a Torino, dove aveva difeso Biagi da un attacco del segretario della Cgil. «E' un uomo libero schierato con le proprie idee. Uno studioso che cerca il dialogo a tutti i costi. Una persona straordinaria». Bobo Maroni lo ricordava e lo piange così. Venerdì scorso nel giorno del compleanno il leader leghista aveva un cruccio «Scrivere subito la lettera a Scajola per chiedere la tutela al professor Biagi» «Marco era molto preoccupato perché la moglie non era tranquilla. L'ultima telefonata per dirmi che aveva una nuova idea, e che era pronto a raccontarmela» I ministro Roberto Maroni con Marco Biagi al convegno di Confindustria dì poche settimane fa a Torino