RUMSFELD nostro problema non finisce con Bin Laden di John Keegan

RUMSFELD nostro problema non finisce con Bin Laden IL SEGRETARIO AMERICANO ALLA DIFESA «AL QAEDA E' ANCORA MOLTO PERICOLOSA» RUMSFELD nostro problema non finisce con Bin Laden intervista Charles Moore e John Keegan DONALD Rumsfeld, il segretario americano alla Difesa, è l'inaspettato eroe della guerra contro il terrorismo. Gli si riconoscono la capacità intellettuale e la forza di carattere necessarie a identificare la natura del nemico e a combatterlo. Lo sue conferenze stampa, note come «Rummy Show», attraggono un pubblico televisivo catturalo dal loro brio e dalla loro franchezza, mentre per molti europei Rumsfeld è un osso duro, soprattutto per le sue idee sugli «Stati canaglia». Lei ritiene che in Afghanistan abbiamo vinto? «Innanzitutto ritengo eccellente quanto le forze della coalizione hanno fatto finora, cioè il fatto che i taleban non sono più al govemo. Gli afghani sono slati liberati, e in modo significativo, dalle politiche e dalle azioni repressive del governo taleban. In secondo luogo. Al Qaeda non sta più usando l'Afghanistan come base mondiale per l'addestramento dei terroristi e l'organizzazione di campagne terroristiche in tutto il mondo. Questo non significa che tutti i taleban se ne siano andati, perché non è vero. Co ne sono ancora molli nelle città e sulle montagne e nei Paesi vicini. E non significa neppure che Al Qaeda non sia più in grado di funzionare. Semplicemente, non ha più l'Afghanistan come porto nella misura in cui l'aveva prima. Al Qaeda è però ancora nel Paese, in sacche isolate. E' ancora nei Paesi vicini, in misura molto superiore. Ed e ancora molto pericoloso». So che gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di impantanarsi laggiù, ma c'è un problema di ordine: quella gente pericolosa si sta riorganizzando, non è vero? «E' chiaro che il nostro compilo principale è continuare a inseguire Al Qaeda e gii altri gruppi tenoristici e controllare che non ci siano Stati che li ospitano, li incoraggiano e permettono le loro attività. Questo dev'essere il nostro primo compito. Se poi mi chiedete che cosa pensi della sicurezza in Afghanistan, io rispondo che non sono un esperto della questione, ma le mie conoscenze storiche mi suggeriscono che, almeno in tempi recenti, quel Paese non è mai stalo un posto mollo sicuro. Ha avuto conflilli tribali. Ha avuto criminali. Ha avuto significativi traffici di droga, negli ultimi anni. Si vorrebbe sperare, per gli afghani, che fosse un posto relativamente sicuro, ma non lo è. Quello che alla fine li aiuterà a renderlo un posto più sicuro, mi pare, è una decisione da parte di un sacco di gente, dentro il Paese e fuori, di investire tempo, denaro e sforzi per vedere se è un obiettivo raggiungibile. E' possibile che gente estranea a quel mondo dia una mano a creare un ambiente più adatto a una vita normale di quanto non lo sia stato in passato? Probabilmente sì. E' desiderabile che lo faccia per sempre? Probabilmente no. In quel Paese le forze straniere prima o poi vengono attaccate dalla popolazione - o da alcune fazioni - per le ragioni più diverse. Il govemo degli Stati Uniti sta discutendo quale sia la cosa migliore da fare. Un'alternativa è aiutare la creazione di un esercito afghano, una forza multi-regionale capace un giomo di fare quello che farebbe una forza di sicurezza intemazionale: ridurre la delinquenza, fornire un appoggio al govemo centrale come contrappeso agli eserciti di cui attualmente dispongono le varie regioni del Paese. Il vantaggio di una forza del genere sarebbe, chiaramente, il fatto che è locale. Non so quanto dovremo restare prima di andarcene: un anno, cinque, venti? Nel Sinai siamo rimasti 22 anni. Una cosa innaturale. La mia opinione personale è che a un certo punto le cose devono chiarirsi sul terreno. Le forze straniere possono essere utili per un certo periodo, ma poi dovrebbero avere una strategia di uscita. Le capacità locali devono svilupparsi e prendere il loro posto in un periodo abbastanza rapido: mesi e anni, non decenni». Quale contributo particolare hanno dato le forze britanni- che e degli alleati? «In buona sostanza, lo stesso delle forze speciali americane. Simile è l'addestramento, simili le capacii tà, insieme lavorano molto bene, e già lo fanno da anni in luoghi diversi del mondo. E' stato grandioso averle qui. Io però tendo a non parlare molto di quanto fanno gli altri Paesi, perché ognuno ama caratterizzare in qualche modo la sua prestazione e lo fa in un modo coerente con la sua pohtica. Alcuni Paesi non vogliono neppure che si sappia che hanno forze speciali». Se ci fosse stato un maggiore impiego di forze e se si fosse preso qualche rischio di più si sarebbero potute distruggere le leadership di Al Qaeda e dei taleban? «Non lo sapremo mai. Proveranno gli storici a dare una risposta. Io non credo. Posso dire che in nessun momento il rischio è stato un fattore determinante. Se si mettono a rischio vite umane, bisogna avere una ragione maledettamente buona: in questo caso ce l'avevamo. E il rischio di mettere a repentaglio vite umane non era cosa da condizionare il numero delle truppe da schierare». Un minore uso delle forze tribali avrebbe facilitato la cattura di Bin Laden? «No, sennò non l'avremmo fatto. La verità è che i confini del Paese sono porosi. In molte località non si sa neppure dove siano i confini: quello è l'Afghanistan. Avevamo, in qualche caso. Paesi che collaboravano al confine. E in altri casi Paesi che non collaboravano. In alcuni casi i Paesi che cooperavano erano in grado di fare abbastanza e altri, pur cooperando, non erano in grado di fare molto». Quali speranze ha di catturare Bin Laden? «Non credo che sia importante quale fiducia io abbia. Lo prenderemo o non lo prenderemo. Vivrà o morirà. E' in Afghanistan o è altrove. Intendiamo trovarlo, se è reperibile, e intendiamo processarlo in un modo o nell'altro. E ritengo che tale sia il sentimento in numerosi altri Paesi. Potrebbe arrendersi domani e Al Qaeda continuerebbe a funzionare. Ci sono molte persone che potrebbero prendere il comando e che sono a conoscenza di come funziona l'apparato e dove sono i conti bancari e quali sono le cellule addestrate e in quanti Paesi - 40, 50,60 - si trovano. Sarebbe meraviglioso trovarlo, ma il problema non finirebbe. E io ritengo che ce la faremo, ma sulla base di quali elementi? Unicamente basandomi sulle supposizioni di una persona o dell'altra». Dopo il discorso del Presidente sullo stato dell'Unione è chiaro che guardiamo oltre l'Afghanistan. Possiamo parlare di Iraq e, in particolare, ritiene che Saddam sia più forte rispetto a dieci anni fa? «Quello che ha detto il Presidente, o che altri Paesi decideranno, passa al disopra della mia testa. Comunque l'Iraq è oggi molto più debole di dieci anni fa. D'altra parte la repressione funziona e il regime di Saddam è ferocemente repressivo, quindi presumibilmente in grado di mantenere il controllo sulla popolazione. In attesa che l'Iraq awii un processo di autoriforma non dobbiamo trattenere il fiato». Come possono avvenire i cambiamenti? «Non avverranno senza un input estemo, a differenza dell'Iran che subisce una serie di pressioni: dalle donne, dai giovani, da influenze esteme. Non ho alcuna idea di che cosa accadrà in Iran, ma ritengo che sia diverso da Corea del Nord o Iraq perché c'è la possibilità di cambiamenti intemi nel lungo termine». Si potrebbe fare una sorta di paragone fira quello che è accaduto in Afghanistan - l'Alleanza del Nord e così via - e quello che potrebbe accadere in Iraq: l'Iraqi National Congress, o altri movimenti, o i curdi, o una miscela di tutti questi, in grado di rovesciare Saddam? «Sarebbe probabilmente un errore fare un parallelo con l'Afghanistan. L'unico paragone possibile è ricordando l'umore in Afghanistan quando si è potuto suonare musica è le dorme si sono tolte il burqa e gli aquiloni hanno ripreso a volare. E' stata la visibile prova del fatto che la popolazione era repressa e voleva disfarsi di Al Qaeda e dei taleban. Ora, ci sono motivi diversi per volere una cosa del genere. Oltre a poter far volare aquiloni, con una maggiore libertà si è anche più liberi di trafficare in droga». Si può paragonare la guerra al terrorismo con la Guerra Fredda? «Il nemico è molto più in penombra. Suppongo che fosse più facile per la gente focalizzare l'attenzione su un'Unione Sovietica grande e visibile, e sulle pressioni che metteva su continente dopo continente: America Latina, Africa, Asia Centrale. Però anche quello è stato un momento difficile. Avevamo fazioni all'interno del nostro Paese e in altri Paesi dell'Europa occidentale che volevano gettare la spugna e non contenere la pressione esercitata dall'Unione Sovietica». Quando era a Beirut, nel 1993, deve avere imparato molto dal terrorismo arabo e islamico. Quell'esperienza le serve per avere un quadro di come si deve combattere le guerra al terrorismo? «Se uno ci pensa, prima ci sono stati i camion carichi di esplosivi contro l'ambasciata Usa e la caserma dove 241 marines morirono. Poi ci furono le barricate di cemento costruite attomo alle ambasciate della Comiche e successivamente attomo alle caserme e alle installazioni militari per impedire che i camion potessero entrare. Il passo successivo fu il lancio di granate oltre le barricate. E allora quegli edifici cominciarono a proteggersi con una specie di reticolato di ferro in grado di far scivolar via quelle granate. Che cosa fecero allora i terroristi? Cominciarono a colpire obiettivi "morbidi", gente che andava e tornava dall'ufficio. La verità è che i terroristi hanno un grande vantaggio: possono attaccare in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, usando qualsiasi mezzo e non è fisicamente possibile difendere ogni località tutto il tempo contro ogni tecnica. Se qualcuno è disposto a sacrificare la vita, può fare molto danno prima di morire». Ma anche la rete del terrorismo ha punti deboli. «Sì, ma solo se la sia affronta». Ma quali lezioni ha imparato a Beirut? Che parlare e negoziare non serve a niente, che l'unica cosa che i terroristi capiscono è quando vengono colpiti? ((Assolutamente. E scoprire dove sono e annientarli. E questo il Presidente lo ha capito fin dal primo giorno». Quali sono le prospettive per i prigionieri di Guantanamo? «Come pensate che siano trattati?» Abbastanza bene, considerando che sono sospettati di terrorismo e che potrebbero avere informazioni utili agli Stati Uniti e agli alleati. «Bene. Fa piacere sentire qualcuno che lo dice». Si ha idea di quanto tempo rimarranno in carcere? «Spetta al presidente. Ha stabilito le commissioni di giudizio, ma non ha sottoposto nessuno al giudizio di quelle commissioni. Abbiamo formulato alcune regole preliminari, che stiamo discutendo, su come procedere. Ma non so quando il presidente deciderà di dare il via, non so». Rischiano la pena di morte? «Oh, certo. Ma è mio obiettivo avere il minor numero possibile di prigionieri. Prendiamo soltanto quelli che possono rivelarci qualcosa in grado di salvare vite umane». Copyright The Daily Telegraph «Se qualcuno è disposto a sacrificare la vita può fare molto danno prima di morire. Ci si può difendere in un solo modo: andando a scovare i terroristi e annientandoli Il Presidente l'ha capito fin dal primo giorno» «E chiaro che il nostro compito principale è continuare a inseguire i gruppi terroristici Non so quanto dovremo restare in Afghanistan: un anno, cinque, venti? Nel Sinai siamo rimasti 22 anni una cosa innaturale» I segretario Usa alla Difesa, Donald Rumsfeld: è stato il protagonista inatteso della guerra contro il terrorismo e ha sempre espresso giudizi taglienti sugli «Stati canaglia»

Persone citate: Bin Laden, Charles Moore, Donald Rumsfeld, Rumsfeld