ventotei dimenticati in Urss

ventotei dimenticati in Urss ventotei dimenticati in Urss L'estremo nucleo dei prigionieri di guerra italiani: dovettero attendere i primi Anni 50 per tornare a casa AFFRONTARE la vicenda degli «ultimi 28», vale a dire l'estremo nucleo dei prigionieri di guerra italiani dimenticati fino ai primi Anni Cinquanta in Urss, significa scrutare il tragico avvitarsi di una pagina della nostra memoria comune. E accostare le durezze implacabili della storia alle contradditorie torsioni del nostro essere italiani. Emergono infatti, incastonate le une nelle altre, le atrocità dell'ultimo conflitto mondiale e le specificità della sciagurata guerra di aggressione con cui, nell'estate del 1941, Mussolini si affianca a Hitler contro l'Urss. A questi aspetti ci sono da addizionare altri ingredienti. Ad esempio i feroci paradossi di un universo concentrazionario dove il minu;ro dui prigionieri fa peso. E, dunque, i tanti prigionieri tedeschi (ire milioni) che affollano i campi sovietici giocano contro l'esigua massa dei settantamila italiani ivi dispersi e che si trovano di fatto in una situazione di doppia prigionia. Sono infatti finiti, è vero, nelle mani dei russi ma dentro i campi di detenzione militare dei sovietici sono spesso i prigionieri tedeschi che hanno il controllo operativo, de facto, del durissimo sistema di vita quotidiana. E spesso se ne servono por sistemare i conti con gli ex-alleati italiani. Non basta. I prigionieri italiani come spiega Francesco Bigazzi nel suo libro. Gli ultimi 28, scritto assieme al giornalista Zugenij Zhirnov - hanno anche la sventura di incappare in qualche decina di connazionali, rivoluzionari di professione di varia tempra, carattere e umanità, inquadrati in Urss nella nomenklatura del Komintem. Uomini a cui non sembra vero di poter riplasmare con «spirito sovietico» le scorate pattuglie dei loro connazionali catapultati li dalle vicende belliche. Non si dimentichi, infine, tra le matrioske che via via-vengono alla luce in questa enumerazione, anche le'lentezze e le disattenzioni della politica estera italiana (che sicura¬ mente dal '43 ai primi Anni Cmquanta ha anche altre gatte da pelare oltre a quella rappresentata dai prigionieri in URSS). Nonché le propagandistiche e contrapposte esigenze sul piano intemo delle principali forze politiche che picchiano sulla grancassa dei prigionieri in URSS quando fa comodo e se ne dimenticano quando più non conviene. Steso questo lungo elenco di tutti i fattori negativi che pesano sui prigionieri dell'Armir non sarà difficile immagmare come il loro destino sia segnato, già ai primi passi. E non solo perché, nell'immane clash tra la poderosa macchina militare tedesca e il lento ma implacabile meccanismo difensivo sovietico, il corpo di spedizione italiano affidato al maresciallo Messe è ben presto nella condizione del coccio tra vasi di durissimo acciaio. Nonostante il valore dei soldati, degli alpini italiani soprattutto, nei giorni tristissimi della ritirata di Russia, le perdite come si sa - sono immani. E lasciano, nella steppa, intere generazioni di giovani ignari, venuti dalle vallate alpine, dai rilievi del nostro Appennino. Ma la tragedia non termina lì. Anzi qui comincia l'odissea dei soldati dell'Armir caduti prigionieri: oltre settantamila. E di questi a tornare a casa sarà una frazione minuscola: 10.084, vale a dire il 14 per cento del totale. Un niente rispetto a quelli che faranno ritomo dai campi di prigionia americani (il 99,8 dei 125.710 detenuti sotto la bandiera a stelle e a strisce), inglesi (il 96,6 dei 420.322 catturati), francesi (il 98,4 per cento dei 68.267 imprigionati), tedeschi (il 94,4 dei 641.954 soldati internati). E se un nome deve essere dato al fattore che colpisce così spietatamente i prigionieri italiani in URSS uccidendone buona parte questo nome è la fame: «E' stato il digiuno viene scritto in un rapporto riportato nel volume di Bighazzi - che ha fiaccato i più deboli impedendo loro di sostenere il ritmo e la lunghezza delle marce del davaj e di resistere alla morsa del gelo nelle notti all'addiaccio. E' stato il digiuno a diminuire le difese dell'organismo e a facilitare i congelamenti. Si deve imputare all'estremo stato di denutrizione il propagandarsi fulmineo delle epidemie di tifo e di dissenteria e il loro immancabile esito letale. Fu la fame a condurre alcuni disgraziati a nutrirsi di came umana». Alcuni dei lager sovietici s'incaricano poi - con disumane condizioni - di completa¬ re l'opera: nel solo lager di Khrinovoje muoiono 27 mila soldati e di questi ventimila sono italiani. Tutto questo fa sì che a poter rivedere l'Italia siano, appunto, quei poco più che diecimila sopravvissuti rimpatriati dall'URSS nel periodo successivo alla conclusione del conflitto mondiale. Numero così ridotto da far nascere speranze immotivate nei familiari convinti che molti fossero ancora i sopravvissuti trattenuti in URSS. Un tema sul quale cinicamente s'inserisce la propaganda antisovietica particolarmente virulenta non appena scoppia la «guerra fredda» e la cortina di ferro scende a dividere l'Europa. Manifesti e discorsi del fronte anticomunista sembrano suggerire alle famiglie che i sovietici si tengano nascosti in qualche desolatissima loro regione, chissà per quale motivo, altre decine di migliaia di prigionieri italiani. Non era così. E tuttavia una manciata di uomini rimaneva davvero ancora in prigionia. Come dimostra appunto la vicenda degli «ultimi 28» che, meappati in vicende repressive di varie ordine e grado durante la loro detenzione nei lager e soprattutto reputati poco fidati dagli italiani dell'apparato dell'ex-Komintem, vengono dimenticati per anni. Esistenze di vivi che per un certo periodo molti sembrano aver fretta di assegnare alle statistiche dei dispersi e degli scomparsi, facendoli scomparire in quella guerra delle cifre che tra Roma e Mosca si combatte tra diplomazie e burocrazie e, peremo, all'interno delle stesse burocrazie moscovite. Di certo le rappresentanze italiane a Mosca non si comportano, tanto per capirci, come quell'addetto militare francese che negli stessi anni inonda di pressanti e documentate richieste i discasteri sovietici chiedendo sempre l'ingentissimo ritomo a casa dei suoi connazionali. E questo non solo nei confronti di prigionieri alzaziani e lorenesi mobilitati obtorto collo dai tedeschi nella Wehrmacht e finiti in Russia. Ma anche nei confronti dei suoi compatrioti che si erano arruolati volontari nelle SS. Poiché, prima di tutto, i compatrioti sono compatrioti. Poi, temati a casa, si sarebbe proceduto a sistemare gli eventuali conti sospesi. Non accade così sul fronte diplomatico italiano almeno finché non giunge a Mosca Manlio Brosio che ingaggia con i sovietici quella battaglia di «liste» - di caduti, di disperei, di «smarriti» - che rappresenta la salvezza per gli «ultimi 28». A poco a poco saranno individuati. Raggiunti da aiuti dalla madrepatria. E, alla fine, riportati a casa. Tutti, tranne uno. Il tenente Italo Stagno che in prigionia, durante l'attesa del ritomo, aveva scritto una preghiera: «Dammi, o Signore, la.stiada/ datjpi^p.^Si^nor^, lf fòrza/ di compiere gli ultimi passi. Fa' che raggiunga la porta/ dove mi attende la sposa». DA LEGGERE Francesco Bigazzi - Evgenij Zhirnov Gli ultimi 28. La storia incredibile dei prigionieri di guerra italiani dimenticati in Russia Mondadori, 2002 Prigionieri di guerra nel campo di Suzdal, in Urss nel '44

Persone citate: Francesco Bigazzi, Hitler, Italo Stagno, Manlio Brosio, Mussolini