Ucciso il giornalista Usa rapito di Paolo Mastrolilli

Ucciso il giornalista Usa rapito Ucciso il giornalista Usa rapito Bush: una barbarie, l'America batterà il terrore Paolo Mastrolilli NEW YORK La morte in diretta: questa è la barbarie che i rapitori di Daniel Pearl hanno riservato all'inviato del «Wall Street Journal», scomparso il 23 gennaio in Pakistan. Il giornalista è stato ammazzato e decapitato, e i suoi giustizieri, per non lasciare dubdì, hanno avuto il coraggio di riprendere l'uccisione e passare il video all'Fbi, mandandolo al consolato americano di Karachi. Ieri notte gli agenti stavano ancora analizzando il documento, ma erano sicuri dell'omicidio. Infatti hanno subito informato la famiglia e il presidente Bush, svegliandolo nel pieno della notte in Cina. «Sono profondamente rattristato - ha detto il capo della Casa Bianca - per questo atto brutale. I miei pensieri vanno alla famiglia e al suo bambino, che conoscerà il padre solo attraverso la memoria degli altri». Quindi Bush ha lanciato un avvertimento ai rapitori: «Quelli che minacciano gli Stati Uniti con questi atti barbarici devono sapere che rafforzano solo la nostra determinazione a ripulire il mondo dai terroristi». Pearl era nato 38 anni fa a Princeton, nel New Jersey, e lavorava per il «Wall Street Journal» dal 1990. Era ebreo, aveva una moglie francese e aspettava un figlio che non conoscerà mai. Viveva a Bombay, dove era capo dell'ufficio del giornale per l'Asia meridionale, e quando era cominciata la guerra si era trasferito in Pakistan. A gennaio aveva preso contatti con il gruppo islamico di Ahmad Omar Saeed Sheikh, che aveva collegamenti con al Qaeda e con Richard Reid, il terrorista arrestato a dicembre perché aveva cercato di far saltare in aria il volo Parigi-Miami nascondendo l'esplosivo dentro le scarpe. Pearl voleva intervistare il capo del gruppo, che gli aveva fatto credere di essere disponibile. Era una trappola, e il 23 gennaio il giornalista era scomparso a Karachi, mentre cercava di raggiungere la sua fonte. I rapitori lo avevano accusato di essere un agente della Cia e del Mossad, e avevano chiesto il rilascio dei prigionieri trasferiti a Guantanamo, spedendo e-mail che contenevano le fotografie di Daniel con ima pistola puntata alla testa. Poi erano passati a domandare la liberazione dell'ex ambasciatore dei taleban in Pakistan. Infine si era sparsa la voce di trattative in corso per soldi. All'inizio del mese, la polizia pakistana aveva scambiato un cadavere nel porto di Karachi con quello del giornalista. Ma la notizia era stata smentita, e le autorità locali erano riuscite ad arrestare Ahmad Omar Saeed Sheikh e altri suoi complici, lasciando sperare che la liberazione di Pearl fosse vicina. Anche per questo, la notizia della morte ha colto di sorpresa la famiglia, che ha reagito così: «Siamo shoccati dalla conferma che le nostre paure peggiori si sono realizzate. Fino a poche ore fa eravamo sicuri che Daniel sarebbe tornato, perché credevamo che nessun essere umano sarebbe stato capace di far del male a un'anima gentile come lui. Questo delitto senza senso va oltre la nostra comprensione». Il «Wall Street Journal» ha risposto con un comunicato dell' editore Peter Kann e del direttore Paul Steiger: «La sua morte ci ha spezzato il cuore. Danny era un collega straordinario, un grande reporter e un caro amico. Il suo omicidio è un atto di barbarie, che si prende gioco proprio di tutte le cose nelle quali i suoi rapitori dicono di credere. Dicono di essere nazionalisti pakistani, ma le loro azioni sono ima vergogna per tutti i veri patrioti di quel Paese». La Casa Bianca non ha incolpato Musharraf, ma è chiaro che la morte di Pearl è anche un attacco contro il presidente pakistano, che ha scelto di stare con Bush anziché con Osama. Daniel Pearl in una delle foto diffuse dai rapitori in Pakistan. A sinistra: la moglie Marianne che attende un bambino