Le NOMINE logorano chi non le fa di Filippo Ceccarelli

Le NOMINE logorano chi non le fa UNA INTRAMONTABILE PASSIONE ITALIANA Le NOMINE logorano chi non le fa la storia Filippo Ceccarelli A ' AH, le nomine... E giù un sospiro. Di solito, quando ne parlano, i potenti assumono un'aria contrita, ingenua, o addirittura imbarazzata. Pare di ricordare Ciriaco De Mita, che come segretario della de fu per diversi anni l'uomo più influente d'Italia, avviarsi verso l'aula di Montecitorio con una cartellina sotto il braccio. Sopra c'era scritto:.::,«NpMINE». Allo stesso De wàta quella scritta in stampateìlo parve buffa, nella sua glaciale astrattezza. Eppure lì dentro c'erano figure, nomi, volti e problemi che più concreti non potevano essere. «Ah, le nomine...» sorrise come se fosse una mesta incombenza cui non poteva sottrarsi: Certo che n^!' I FOGLIETTI DI DEL NÓCE La nuova classe di «liominantes» non mostra j altrettanti scrupoli estetigi: rispetto alle cartelline demitiane, nel 1994 Storace e Del Noce .giravano con foglietti con 'i jàomì per viale Mazzini. Ma niel chiuso delle stanze, al momento della stretta, più di ogni altra quella pratica si continua a vivere con la stessa euforia, gli stessi brividi e risentimenti, e anche con le medesime lacrime, a volte. Nessuna attività dà più gusto al potere che «fare le nomine». Se poi si considera, , che i- nominati dovranno, com'è nel caso della Rai, procedere a loro volta a dèlie nomine, questa circolarità distributoria, questo privilegio destinato a moltiplicarsi a cascata, questo "'sistema articolato -e misterioso di premi e riconoscenze va al cuore stesso della politica, raggiungendone il suo significato più nobile. O almeno: dovrebbe. Il che in Italia non avviene quasi mai. IL CAVALLO DI CALIGOLA Pregiudizio e invidia accolgono di norma qualsiasi nominato. A parziale giustificazione del malanimo nazionale tocca dire che questi sentimenti sono spesso assai giustificati. L'archetipo negativo è affidato all'imperatore Caligola che «nominò» il proprio cavallo. La presenza dell'enorme statua proprio di un cavallo dietro le sbarre di viale Mazzini appare per certi versi significativa, per non dire simbolica. L'animale di Caligola aveva nome «Incitatus» ed era da corsa. «Si disse - annota maliziosamente Svetonio - che Caligola volesse perfino nominarlo console». I super-tifoso imperiale aveva perso la testa: gualdrappe di porpora, finimenti ingemmati, scuderie di marmo, mangiatoie d'avorio, servizi di scorta armata. I senatori non gradirono affatto l'idea del consolato equino, ma la trovata restò così a lungo negli annali che Giulio Andreotti, in vena di contestare una nomina, disse una volta: «Lei, senatore, mi richiama molto Caligola!». Ma anche lui, Andreotti, ebbe i suoi problemi, quando l'accusarono di aver nominato alla Consob un suo amico che fino a quel momento aveva diretto il pur famoso cine-teatro Brancaccio di Roma. BARZELLETTE E TORNEI Non è solo un fatto di cavalli o impresari posti a tutela del mercato borsistico. Né di amene storielle in voga alla Rai tipo: «Hanno nominato tre de, due socialisti, un socialdemocratico e uno bravo». Per come si erano messe le cose in Italia, i nominati ebbero l'ultima parola su petrolio, navi, aerei, strade e autostrade di Stato. Poi banche e Casse di Risparmio, tanto che una volta il senatore Evangelisti, per celia, propose di sostituire la scritta «Libertas» sullo scudo crociato con la dizione, appunto, «Casse di Risparmio». Più che nomine, quelli erano tornei con centinaia di concorrenti e la consapevolezza che una volta conseguita la nomina, prima di rimettere in moto il meccanismo, potevano passare - e passarono infatti decenni. Non solo, ma il mosai- co si complicava periodicamente a colpi di Camere di Commercio. A ogni cambio di segreteria democristiana o socialista, per lo più, gli equilìbri cominciavano a scricchiolare e allora, come rimedio, si aggiungevano posti e poltrone. Altre nomine quindi andavano in porto, non di rado cementando alleanze che oggi si sarebbero dette «trasversali». Vedi tutta una leva di ambasciatori fanfaniani e nenniani; o una vasta schiera di Stati Maggiori partoriti da un pervicace connubio fra dorotei e demartiniani - e attorno a questi ultimi germogliò la barzelletta del colpo di stato dei generali, e di De Martino che chiede: «E a noi quanti ce ne spettano?». LA CRISI DEL NOMINIFICIO Se la Prima Repubblica è stata una fabbrica di nomine - non tutte ovviamente arbitrarie - è pur vero che lo si è cominciato a capire quando di molte è andata via via contestandosi la legittimità. Alcuni episodi - come quello che vide Nerio Nesi negoziare sulle banche per conto del psi e uscirne come presidente della Eni - fanno riflettere. I partiti se lo potevano permettere. Quando Donat Cattin si dimise da ministro, gli parve del tutto naturale di designare lui il suo successore (nella persona del sindaco di Porto Empedocle). Il fatto che non ci riuscì parve allora inusitato. Ma quando, ormai negli anni ottanta, dovettero sottostare a una logica che prevedeva la scelta dei nominandi da una terna predisposta dalla Banca d'Italia, ecco, a quel punto il loro potere, anzi il loro destino èra già in qualche modo segnato. Ancora un po' e un maestro come Duverger avrebbe potuto azzardare questa impietosa diagnosi: «La mafia e la camorra sono meno dannose dello straordinario sistema dì nomenklatura mascherata da democrazia che da circa 40 anni ìrolifera nella Repubblica ita- iana». Il guaio è che esauritosi il canale partitico, o partitocratico che fosse, nulla lo ha sosti- tuito. Ed eccoci al presente, cioè alla patatona bollente del CclA della Rai posta nelle mani di Pera e Casini, «che sono ancora giovani - come ha voluto graziosamente ricordargli Berlusconi - e vorranno continuare a fare politica». Vorranno sì, poveracci. AUCTORITAS O FIDELITAS? Ma il problema oltrepassa^ le eventuali iMìom aéTp'esrdenti delle Camere e riguarda semmai i criteri di selezione dille classi- dirigènti. "Criteri ritenuti generalmente al di sotto di quei «minimi di civiltà» di cui ha scritto nel suo recente libro «Sulle virtù pubbliche» (Bollati Boringhieri, 208 pagine, 13,43!) uno studioso attento alle élites come Franco Rositi, secondo il quale «sarebbe rischioso sperare nell'apparizione di nuove élites che per incanto sappiano spezzare e buttar via il negativo di certe nostre tradizioni». - Rispetto a queste, con qualche crudele paradosso. Rositi quasi si sorprende a rammentare le virtù che nella civiltà merovingia e carolingia avrebbero favorito una possibile nomina a cariche pubbliche: dignitas, honor, auctoritas, humilitas, strenuitas. Mentre il criterio prevalente rimane piuttosto quello della fedeltà {fidelitas), della vicinanza anche fisica al detentore del comando. Com'è ovvio è così da un bel pezzo: si diceva ad esempio che Enrico Mattei vedesse solo marchigiani e partigiani; e che la Rai fanfaniana fu presto popolata dì giornalisti e annunciatori che aspiravano la «e» come in Toscana; fino al «clan degli avellinesi» di Biagione Agnes. Eppure l'impressione è che l'andazzo si sia accentuato. In altre parole: rispetto ai «sinedri» o ai «caminetti» democristiani, dal punto di vista della distribuzione delle cariche la «corte» berlusconiana di Arcore o Palazzo Grazioli rappresenta un indubbio salto verso la nomina personale. POTERI OCCULTI (E IMMAGINATI) Questo in teoria dovrebbe ovviare a scelte la cui regia avviene di nasèostò cori il coritribùta di entità invisibili e inconfessabili, anche se fin troppo spesso immaginabili e immaginate. Si va dalla massoneria - «Mai nominarla, sempre tenerne conto» sosteneva De Gasperi: e Celli in effetti si dava da fare - alla Santa Sede, cii^i pare spetti una specie di «non expedit» senza il quale pare che non si possa dirigere il Tgl. Fatto sta che nel suo diario («Maledetti professori», Rizzoli, 1994) Paolo Murialdi racconta la scenetta di una tornata di nomine a viale Mazzini con l'allora direttore generale Locatelli inseguito al telefono dal cardinal Sodano. Ci sono poi le pressioni deir«Alto Colle», vale a dire del Quirinale sulla promozione e lo spostamento di prefetti, la scelta dei capi dei servizi e della polizia. Senza che l'accostamento suoni irriguardoso varrà comunque la pena di aggiungere che sempre in tema di nomine, tra un sospiro, una risala e una strizzatina d'occhio la gente è da sempre convinta che nella grande lotteria della politica influiscano altre due entità: il nepotismo (efr i due volumi longancsiani di Locatelli e Martini, «Mi manda papà», 1991 e «Tengo famiglia», 1997) e l'alcova, che sotto la presidenza Gronchi portò addirittura a un dispositivo legislativo soprannominalo «legge Pompadour». L'AZIENDA DELLE 13MILATESSERE La Rai tutto racchiude e tutto, a suo modo, esaspera. Ne «L'uomo di fiducia» (Mondadori, 1999) Ettore Bernabei confida a Giorgio Dell'Arti l'essenza stessa delle nomine senza tralasciare il suo ruolo di consigliere tempestivo quando, durante il funerale di Willy De Luca, favorì l'ascesa del suo successore Agnes, con l'avvertenza a De Mita di non seguire «procedure camorristiche». A quei tempi i membro del CdA erano 16, e su tutti doveva votare la Commissione di Vigilanza: un vero massacro. Alla metà degli anni ottanta Camiti venne individuato come il messia che avrebbe fatto piazza pulita nell'azienda - come disse lui stesso - delle «13 mila tessere». L'incontro con Agnes ebbe luogo al ristorante «Foghén. Il sindacalista ciucciava un mezzo sigaro spento; Biagione lo guardava con la faccia di pietra. Disse Camiti: «Prima delle nomine bisogna stabilire i criteri». E l'altro muto. «Ah, le nomine pensava - le nomine...». Era ontano il tempo del «Grande Fratello», quando sentirsi dire «Sei stato nominato» significava uscire dal gioco. Nessuna attività dà più gusto al potere Per apprezzarne il senso va considerato che i nominati dovranno a loro volta procedere ad assegnare altri incarichi Il politologo Duverger arrivò a sostenere che «mafia e camorra sono meno dannose dello straordinario sistema di nomenklatura che prolifera nella Repubblica» Rispetto ai «caminetti» e ai «sinedri» democristiani, la «corte» berlusconiana di Arcore rappresenta un salto verso la personalizzazione delle scelte Si diceva che Enrico Mattei, potente «padrone» dell'Eni, propendesse per nominare solo marchigiani o ex partigiani E che la Rai di Fanfani fosse presto popolata soltanto di giornalisti e annunciatori che aspiravano la «e» alla toscana Tanto spazio e tempo prendeva l'assegnazione delle cariche che una volta Franco Evangelisti, braccio destro di Andreotti, propose per scherzo di sostituire la scritta «Libertas» sullo scudo crociato democristiano con quella «Casse di risparmio» Ciriaco De Mita, da segretario della De, girava con una cartellina sotto il braccio. Sulla copertina c'era scritto in maiuscolo: «NOMINE». Una scritta che allo stesso leader democristiano sembrava un po' buffa, nella sua glaciale astrattezza Paolo Murialdi, nel diario della sua esperienza come consigliere di amministrazione in viale Mazzini, racconta la scenetta di una tornata di nomine Rai, con Gianni Locatelli, allora direttore generale, inseguito al telefono dal cardinale Angelo Sodano L'archetipo della nomina negativa risale all'imperatore Caligola che «nominò» il proprio cavallo Incitatus. «Si disse - annota maliziosamente lo storico Svetonio - che volesse perfino farlo console». I senatori non gradirono ma la trovata restò a lungo negli annali, tanto che Giulio Andreotti in vena di contestare una nomina, una volta apostrofò un parlamentare: «Lei mi richiama molto Caligola!». La presenza della statua di un cavallo in viale Mazzini appare perciò, per certi versi, simbolica. I nuovi «nominantes» non mostrano particolari scrupoli estetici. Se De Mita girava con una cartellina. Francesco Storace e Fabrizio del Noce nel '94 sbandieravano foglietti con i nomi per viale Mazzini Le NOMINE logorano chi non le fa

Luoghi citati: Arcore, Italia, Porto Empedocle, Roma, Toscana