Battaglie e fuoco civile di Pantaleone o scrittore antimafia di Michele Pantaleone

Battaglie e fuoco civile di Pantaleone o scrittore antimafia E' MORTO A PALERMO L'AUTORE DEL « SASSO IN BOCCA»: AVEVA 90 ANNI, FU PROCESSATO CON EINAUDI Battaglie e fuoco civile di Pantaleone o scrittore antimafia Ha svelato per primo gli intrecci tra criminalità organizzata e politica Venne bersagliato da minacce di ogni tipo e una volta gli spararono Francesco La Licata ROMA PIÙ d'una generazione di siciliani ha conosciuto la mafia attraverso i suoi saggi. Personaggio scomodo perché «incontrollabile», Michele Pantaleone è stato l'autore di analisi e interpretazioni controcorrente: fu tra i primi a descrivere l'abbraccio innaturale tra politica e Cosa Nostra. Una vocazione, quella della denuncia, che lo ha costretto a trascorrere una vita nelle aule dei tribunah dov'è stato trascinato da più di un potente. Si potrà discutere sulla figura di Michele Pantaleone, morto ieri a novant'anni nella sua casa di Palermo, ma nessuno potrà mai dire che non sia stato un combattente. Se n'è andato in solitudine, l'ex geometra di Villalba (cuore della mafia nissena e patria del mitico don Calò Vizzini) prestato alla pohtica e prigioniero della sua vera vocazione che era quella dell'intelletuale senza collare. E riuscito a morire vecchio e nel proprio letto, facendo scorno a quanti avrebbero gioito se «gli fosse accaduto qualcosa». Ecco, non era amato Pantaleone. Già all'inizio degli anni Settanta, mentre sedeva nell'Assemblea regionale siciliana tra i banchi del gruppo comunista, si era capito che qualcuno lo voleva morto. Prima ancora gli avevano già sparato, ai tempi del «Blocco del Popolo», ma mentre stava accanto aMommo li Causi durante un comizio a Villalba. Altre volte lo avevano preso di mira per intimorirlo, ma quel pomeriggio dell'immediato dopo Scaglione (il procuratore assassinato nel maggio '71) il messaggio fu più raffinato. Una telefonata al ceótìtìtiHb'HeT «Pàrlameàf 85' sfcilIS*' no: «Pantaleone si è ucciso a casa sua». Da Palazzo dei Normanni la notizia rimbalzò al centralino dell'Ora, lo storico giornale di Palermo. Si preoccupò seriamente, il direttore Vittorio Nisticò; Pantaleone era anche tra i collaboratori di punta del giornale. Insieme con Fehce Chilanti, Mario Farinella, Giuliana Saladino, Marcello Cimino e tanti altri, aveva fumato agguerrite inchieste sulla mafia. Anzi, proprio Pantaleone - suscitando qualche somsetto dubbioso - aveva portato la notizia che i boss usavano le arance siciliane )er trasportare la droga. Insomma, a notizia del suicidio di Pantaleone era di quelle che creavano inquietudine. Un cronista venne spedito a casa dello scrittore e rimase di pietra quando vide Michele aprii^U la porta, sano e vegeto. Rise pure, Pantaleone, con quel suo inconfondibile vocione e disse: «È vero, io sono un siciliano inquieto, ma non penso affatto di uccidermi. Sono, anzi, sicuro che questa eventualità resterà un pio desiderio dei soliti noti che mi vogliono morto a qualunque costo». E regalò al giovane cronista una copia del suo libro Mafia e droga, con un pensiero dedicato «ad una strana notizia, per fortuna non vera». Dopo di che continuò a frequentare il «gruppo L'ora», ricco di intelligenze del calibro di Leonardo Sciascia, di Guttuso, di Nino Soi^i. Ha scritto molto, Pantaleone, sulla mafia, A partire dai saggi sull'intreccio Cosa Nostra-separatismo, per finire all'Omertó di Stato e passando per le analisi di Mafia e politi¬ ca (per questo libro fu processato a Torino nel 1976 con l'editore Einaudi per diffamazione). Mafia e droga, Antimafia, occasione mancata. Già, era polemico. Michele. Anche con la sua stessa parte pohtica. Ha molto accusato e molto è stato accusato. Verità? Infamie per neutralizzare una voce che sfuggiva a ogni controllo? Descrisse l'inizio dell'Autonomia siciliana come fortemente condizionata dalla sinergia Stati Uniti-mafia. Raccontò lo sbarco americano «etero¬ diretto» da Lucky Luciano per conto del servizio segreto della Marina statunitense. Rivolse pesanti accuse a notabili De e potenti, qualche volta - forse - cedendo all'istinto più che alla'riflessìdhe. Sarà per questo che si è sempre dovuto difendere in tribunale. Qualche volta subendo una sorta di nemesi e ricevendo accuse infamanti, come quando fu denunciato per truffa. Nellibro^ccadeva in Sicilia (Selleria) Vittorio Nisticò racconta come Chilanti, pur nel giudizio non tutto positivo per via di una certa «ambizione e vanità» dell'amico, si schierò in difesa di Michele, arrivando a descriverlo in una lettera al direttore «siciliano di Villalba, contadino coraggioso e anche ambizioso». Ma aggiungendo: «Detto questo, io insisto nel dire che qualora la nostra stampa, la nostra parte pohtica, tu, io (e torti ce ne ha fatto tanti) abbandonassimo Pantaleone nelle mani dei suoi persecutori mafiosi, commetteremmo una vera infamia». Per la Sicilia, tuttavia, è stato un patrimonio. Lui, come Danilo Dolci, l'altro intellettuale (anch'egli scomparso) che riuscì, per dirla col prof. Salvatore Lupo, a fare del pensiero un'arma civile. Non è un caso che entrambi spopolino nell'universo cartaceo della commissione Antimafia. Pantaleone, addirittura, offrì le sue analisi già prima dell'avvento dell'organismo ministeriale. E sempre entrando e uscendo dai tribunali. Tredici anni durò il processo con il prof. Luigi Lumia, sindaco comunista di Villalba. Michele fu accusato di essere l'autore di lettere anonime che descrivevano l'amministratore come corrotto e insegnante che promuoveva i figli dei potenti, oltre che invischiato in storie di droga. Anni di sentenze altalenanti, fino all'assoluzione, in Cassazione. Ha vissuto in solitudine, lo scrittore. Spesso visto come un «rampante» mai sazio di successi. Persino il suo duello senza fine con don Calogero Vizzini, notabile De e capomafia di Villalba, è rimasto esposto a insinuazioni malevole. Fino all'ultimo, in una intervista concessa nel 2000 a Tano Cullo, Michele ha spiegato l'odio del boss nei suoi confronti come conseguenza per il rifiuto opposto all'offerta di matrimonio con la nipote di don Calò, Raimonda. «Io sempre a dire no e i suoi emissari a chiedere perché. Non intendo sposarmi, né ora né mai, era la mia risposta. Così per non imparentanni col boss sono rimasto scapolo». Ma tanta suggestione è poca cosa, rispetto alla versione malevola - addirittura messa in circolo attraverso le famigerate «schede personali» della commissione Antimafia, contro le quali si è battuto lo scrittore - che vuole Michele figho di sangue di don Calò e quindi ribelle e ((traditore della famiglia» solo per calcolo pohtico. Si sa, in Sicilia calunnie e lettere anonime spesso sostituiscono la lupara. In alto. Michele Pantaleone con l'editore Giulio Einaudi durante il processo subito nel dicembre 1976; qui accanto, don Calò Vizzini protagonista di un duello infinito con lo storico della mafia