Il destino lacrima nel Presepe di Napoli

Il destino lacrima nel Presepe di NapoliIl destino lacrima nel Presepe di Napoli Antonella Cilento SE mi chiedi, poi, cosa successe quella mattina, non so spiegarti. Non so dirti neanche se aveva davvero smesso di piovere, come in fondo testimoniavano passanti senza ombrello, facce allegre, prime spese, movimenti rapidi dì cappotti e giubbetti, scatarrate di motorini e frenate e clacson, il Natale secondo il traffico e il paniere dei consumi. O se invece pioveva ancora, come accadeva da giorni, vasche d'acqua rivoltate sulla città, ima lunga, infinita tirata di sciacquone, che pisciaturo! come un passante aveva borbottato, rivolgendo poi uno sguardo interrogativo verso il cielo, pipì d'angelo o del diavolo che, quando tuona, è risaputo, va 'ncarrozza. Fatto sta che io, con la testa, stavo ancora nella neve di Bolzano, meno sei, da cui ero appena tomata, puzzolente di eurostar, non ero ancora in came e ossa a Napoli, avevo in mente solo storie di Natale, esercizi musicali - avevo fatto lezione per sette giorni - e mercatini con gnomi, fate e elfetti, tranci di sachertorte, cappucci e sciarpe, che già stavo finendo, invece, tisica tisica, in un mercato di pastori, negli oblò rotti e barocchi di via San Gregorio per comperare il Gesù Bambino di buon augurio, quello che si acquista solo verso la fine dell'avvento e si mette nella paglia la sera del ventiquattro. Ero quindi immersa nel Natale dei turisti, nel rosso dei fiocchi di cartapesta, nell'intalliamento dal cinema all'aperitivo alla pizza, nel verde smeraldo delle confezioni e negh Strass degh abiti di fine anno, come in un film di Mira Nair, La fiera delle vanità, quando, al semaforo, era arrivata la telefonata. Il mio cellulare ha sempre lo stesso squillo, un corto giro di violino, ma in certi giorni giurerei che no, che suona a campana o a campanaccio, che sibila o squittisce, suona con il tono della notizia che ti arriva: cattiva, allarmante, buona. Anche le voci di chi mi chiama cambiano: al cellulare, se sono tristi, lo sembrano di più, specie se di sohto suonano solo a festa, se ti dicono sempre: allegria. D'improvviso la notizia è lì e la voce non ha perso quel suo tono, non può, è la sua natura, eppure deve testimoniare che l'accaduto c'è, che ormai il fatto è appuntato sulla mappa del mondo e non si può fuggire, che il vuoto ha fatto spazio, si è innestato, ha preso sede. La voce di Mariella, mentre aspettavo che il semaforo da rosso diventasse verde, in tono involontario con il Natale, diceva di morte, di un uomo che si era avvelenato. Mariella è una pianista, una donna piccola, tornita come una bambola. Ha sempre una parola gentile per tutti, è sempre elegante e entusiasta. Ora, al cellulare, la voce di Mariella suonava sola, mentre di consueto è una voce piena di altre voci, di cui lei nemmeno si accorge che le echeggiano dentro, le voci allegre e buone dei figh, le voci felici di quando era una bambina e giocava a raccoghere sassi e conchiglie, la voce dell'entusiasmo, del dio che ti entra dentro e gioca. Cattiva notizia di Natale se un uomo muore, se l'uomo è il tuo, se con quell'uomo nemmeno mai ci hai vissuto e se nessuno, oltre a voi, sa che siete stati insieme, che vi siete scambiati ogni più piccolo segno, ogni ferita, desiderio, pensiero e promessa. Se insieme sfogliavate le partiture, se ogni nota aveva un senso solo vostro. «Era già morto da tre giorni» mi stava dicendo Mariella «e io mi chiedevo perché, perché il suo cellulare non rispondesse... Era depresso, da molto tempo». Mi capita spesso di raccoghere il mistero della confessione. Una volta, una banale telefonata di sondaggio si trasformò in una confidenza strettissima con la telefonista, una signora milanese che non riusciva a sposarsi perché la figha che il suo compagno aveva avuto dal primo matrimonio la odiava. Aveva chiamato per domandarmi di surgelati o per sapere se ero disoccupata, non ricordo. Ricordo solo di aver fatto tardi al lavoro perché voleva parlare con me, con una sconosciuta. L'immagine di Mariella, solare e dolce, ferma in una scelta incompiuta, lasciare il marito mai amato per un altro uomo, una scelta che ora non avrebbe più potuto fare, mi era venuta in visita, come Sant'Anna. E alle confessioni non si può chiudere la porta. «Adesso non so più che fare, come andare avanti. Ho perso la direzione, niente ha più senso. Smetterò di suonare». Anch'io mi ero persa. Stavo ferma, in attesa di arrivare in via Benedetto Croce, ferma e in discesa, al telefono. «La moghe non sa... Mi ha sempre detto: quanto poco parla mio marito». Quanto poco parlano i mariti. Ascoltavo Mariella squillare le parole, nel tono morbido di sempre, con l'acuto finale, perché il dolore non l'aveva spenta. E cosi, mentre ero ancora al semaforo - ma stavo attraversando, neanche me ne accorgevo, avevo fatto i passi necessari ad arrivare all'altro capo del marciapiedi e adesso imboccavo via San Sebastiano, passavo fra i negozi di strumenti, fra breve mi sarei trovata in piazza del Gesù e ci sarebbero state decine di colombi in volo, in fila su ima linea della luce come gh uccelli di Hitchcock, ci sarebbero stati i festoni e un grande manife¬ sto rosso con su scritto: Toledo Strasse - mi ero ritrovata indietro di alcuni giorni, riportata all'incrocio dell'autobrennero, a Bolzano, dove tutte le strade portano nomi di città e persino le più meridionali finiscono in strasse, Palermostrasse, ad esempio. Così, senza preavviso, nel bel mezzo di Piazza del Gesù, mentre ero ancora al cellulare, aveva cominciato a nevicare molto fitto mica la neve del Vesuvio, che è poca, mica la neve spumeggiante del mare che butta sputi su via Caracciolo, no, la neve vera, quella del Trentino - e io stavo camminando, con le pelacchine che si spugnavano e la testa immersa in un grande cappotto impermeabile. Accanto a me, mentre fioccava, e non c'era un'anima che camminasse oltre a noi in via Verona, Veronastrasse, una donna della mia stessa età, Lia, appena termi¬ nato un concerto, mi stava raccontando. Diceva la sua vita con leggerezza: aveva vissuto a Torino, era stata fehce, era stata sposata, aveva atteso un figlio, aveva dovuto perderlo. In ospedale i medici le avevano taciuto il rischio, avrebbe potuto sceghere di finirla prima, con meno danno, e invece l'avevano costretta a decidere troppo tardi, a fare un parto indotto un'intera giornata di doghe - a firmare carte su carte. Mi hanno fatta sentire un'assassina, diceva. Se solo i volontari le avessero detto la verità. E poi il marito se n'era andato, con un'altra. Nevicava durante quest'inattesa confidenza e c'era un gran silenzio e una comunione e una vicinanza forte. Con Lia avevamo perso la strada, perché sempre la neve ci porta in territori troppo chiari per essere distinti, e, mentre si raggrumava a cristalli sulle lab¬ bra facendoci balbettare, eravamo finite dietro il condominio sbaghato in via Firenze, Firenzestrasse, ognuna con una storia in più consegnata al freddo dell'inverno. Ero riuscita a suonare come niente fosse, quel pomeriggio, a Bolzano e, invece, rieccomi a Napoli, di colpo di nuovo in Piazza San Domenico, ed era passato appena un istante nel tempo del ricordo, ed ero davanti a Scaturchio, pieno zeppo di gente, e non potevo più dare ascolto al ricordo di Lia ma non riuscivo ad essere d'aiuto a Mariella, che al telefono piangeva, e intanto dovevo attivare la mia attenzione perché Napoh non è città dove passeggiare soprappensiero, anche se un amico mi ha detto una volta che è l'unico posto dove riesce a pensare. A Milano, invece, non può. Un gruppo di universitari un po' troppo entusiasti rischiava di schiacciarmi contro un muro, una nuvola barocca attraversava il cielo sconvolgendo la luce. Avrei voluto dire a Mariella: non smettere di suonare, suona, semmai, gh sgambetti della vita, ma la linea era caduta, mi ero dovuta fermare. Adesso iniziava la salita. Andare a San Gregorio di questi tempi è dura, c'è una ressa impressionante, finta, teatrale. Mica come le strade vere della vita, piene di neve senza sci, come via Firenze, dove un matrimonio finisce e un figlio muore, una seconda volta, nel ricordo. Mica come via San Sebastiano dove il sole piove di traverso mentre Mariella dice: un uomo si è ucciso, due donne sono rimaste sole. Mica come il buio che poi, quella sera, avrebbe avvolto l'auto che mi riaccompagnava e, arrivati alla Sanità, un'attrice appena conosciuta avrebbe detto: io abito dove hanno sparato giovedì. Erano sette anni che non si sparava nella Sanità. Adesso che hanno sparato, hanno ammazzato quello che portava le sigarette al boss, nel suo quartiere, sotto casa sua, la Sanità si è spenta. Prima non si poteva passare tanta era la coda di motorini, la festa continua in strada. E avremmo visto, in effetti, la Sanità al buio, battuta dalla pioggia. Ma mentre entravo in San Gregorio, alla ricerca del Bambin Gesù per il presepe di casa, cercavo di cancellare il peso delle confessioni, la notte in cui ancora non ero, che ancora non sapevo. Perché a volte, per vivere, ci si può concedere il lusso, costoso, di dimenticarsi che c'è la notte. Era giorno, aveva smesso di nevicare in via Firenze, stavo entrando in Piazzetta Nilo. Adesso c'erano solo pastori e voci e spinte e festa, il torpedone natalizio che risaliva fino a San Lorenzo Maggiore. Muschio, cartone, spade di fil di ferro, sughero per fare montagne, lucine, odore di struffoli, gh antri bui dei palazzi aperti come grotte mediorientali, l'onda liscia della vita che passa. Lo zerri-zerri che suonava, registrato in una delle botteghe, e die teneva il ritmo della festa popolare, le sciarpe di seta dei turisti, le giacche di gomma dei napoletani come tanti palloncini di petroho colorato, le carte spugnate per terra. Il cielo aveva girato di nuovo, soffiava vento senza che si sentisse l'onda su \fia Marina, il mare mosso che al laigo è buio e muto. D'improvviso eravamo tutti - i passanti, i turisti, Lia e Mariella dentro di me - nelle mani aperte della Madonna vestita di celeste, in piedi dentro ima vetrina, i gomiti larghi verso il cielo, eravamo tutti nei suoi occhi dipinti in leggera distorsione rispetto al calco in terracotta, come se sul viso ci fossero le iridi azzurre di qualcun altro, le nostre, forse, e schiacciati contro i bancarielh e le vetrine sostavamo tutti con le braccia alzate e i gomiti piegati per tenerci e tenere gh altri. Quindi, il torpedone d'anime aveva fatto un altro passo d'onda ed eravamo finiti tutti in faccia a un vecchio pastore con le guance rosse di vino. Oltre il cancello della chiesa di Santa Patrizia c'era una suora che aspettava gh iscritti a una visita guidata al chiostro. Verso San Gaetano c'erano le telecamere del Tg 1 che intervistavano gh artigiani: chi c'è quest'anno nel presepe. Al Pano e la Lecciso. E, in fine, il torpedone ci aveva depositato sul decumano superiore, in una rara bolla di silenzio e pace. Il tempo di tirare giù il giaccone e prendere la via di casa dopo aver controllato di avere ancora il cellulare - rosso anche lui, come Babbo Natale - e mi ero accorta di non aver comperato affatto il Bambin Gesù per cui ero uscita. Mi ero seduta su uno scalino, avevo aperto il quaderno con gli spartiti per quella sera e invece delle frasi musicah avevo trovato solo parole. Mancavo. Ho visto. Non vedrò mai. Adesso basta. Ovunque io vada. Ho dimenticato. Non c'è un perché. Non ho scuse. Ho sempre creduto. Ho giurato. Mi rifiuto. Se mi chiedi. E se mi chiedi poi cos'è successo quella mattina, quante donne hanno parlato, di quanti amori e vite si è detta la parola fine, quanti auguri ci siamo scambiati, quante scelte mancate e quante condizioni di tempo si sono succedute, quante parole si sono perse e quante sono rimaste in attesa di fare sedimento, di prendere occhi e braccia e diventare il presepe che poi ogni esperienza compone dentro di noi, davvero, non ti so dire. Avevo gh occhi asciutti ma non ho fatto in tempo a scrivere. Neanche la parola: fine. UNAWlUSICISm SI AVViA IN UN MERCATC D5 r*ASTORI. MgGU OBLÒ*: ROTTI E BAROCCH! DI VIA SAN GREGORIO PER COMPERARE IL GESÙ' BAMBINO DJ BUOrf AUGURIO, QUELLO CHE SI ArQUISTA SOLO VERSO LA FINE DELl'AVVEMTO É SI MEtri NELLA FAGLIALA DEL VENI D'IIVSPROWISO S ti CELLULARE: U DI MARIELLA. UMA P1AMISTA, UMA DONNA PICCOLA, TORNITA COME UNA BÀMBOLA, DICEVA DI MORTE, DI UN UOMO CHE SI ERA AVVELENATI La scrittrice Antonella Cilento è nata a Napoli nel 1970. Tre suoi libri sono editi da Guanda. Di recente è apparso «L'amore, quello vero». Le abbiamo chiesto un racconto ambientato nel tempo natalizio della sua città. Ecco «Non ti so dire». Il destino lacrima nel Presepe di Napoli Marino Niola Il presepe l'ancora dèi mediterraneo pp. 143,615 «il presepe» di Marino Niola è illustrato con opere, riprese da Sergio Siano, de «La scarabattola», un Jaboratorìo d'arte {www. lascarabattola.it) sorto nel 1996. Alcuni pezzi nel volume sono stati realizzati per la mostra «Il mondo sospeso» (a Roma fino al 6 gennaio, Basilica di SanGiacomo in Agusta)