La maledizione di Sarajevo «Meglio la guerra»

La maledizione di Sarajevo «Meglio la guerra» DIECI ANNI DOPO LA CAPITALE RIMPIANGE IL SUO «SPIRITO COSMOPOLITA) La maledizione di Sarajevo «Meglio la guerra» fI^agli intellettuali ai cecchini, la città ; ricorda Tassedio: «Eravamo degli eroi» reportage RÉMYOURDAN SARAJEVO Si monnora come un segreto a Sarajevo, nonostante siano anni che si annida nelle anime e detta le parole. E' un segreto di Pulcinella, perciò indicifiile. Non se ne parla con chi ha perso qualcuno, soprattutto se era un figlio, né con chi è stato mutilato dalla guerra, né con i profughi, né con gli stranieri. Ma resta ima sensazione diffusa: la guerra era meglio della pace. Dieci anni dopo la fine della guerra in Bosnia-Herzegovina questo sentimento inconfessabile segna la profondità dell'abisso nel quale Sarajevo pensa di precipitare. Sottolinea la perdita d'identità di un paese diviso, la perdita dell'energia in una città devastata. «Per dirla come va detta», dice Atko Glamocak, l'attore più popolare di Sarajevo e direttore dell'Accademia dell'arte teatrale, «ecco che si scopre che la guerra era molto meglio di questa pace qui, morti a parte. Una guerra senza ammazzati, sarebbe meraviglioso». «Ho odiato la guerra, l'assedio, la sete, la fame. L acqua soprattutto era un'ossessione», ricorda Vojka Dzikic, poetessa e direttrice di «Libri di Sarajevo», rivista letteraria di spirito molto «jugoslavo»: «Eppure ora ho la strana sensazione che la guerra sia stata il miglior periodo della mia vita, quando ho vissuto i momenti più importanti e conósciuto gli amici più cari». Quello che invece non è un segreto è l'esposizione agli accordi dijiàcé aiDaytón/cKehanno sì fatto tacere i cannoni serbi, eliminato posti di blocco, chiuso campi di concentramento e scoperchiato fosse comuni, ma anche legittimato la divisione politica e la segregazione etnica, inquinando la pace con la «vittoria» dei nazionalisti che hanno distrutto la Jugoslavia e cominciato la guerra. Per questi abitanti di Sarajevo tolleranti e bohémien, spesso nostalgici della Federazione Jugoslava dopo la transizione sanguinosa degli anni '90, la guerra fu un atto di resistenza quanto la pace di Dayton una resa miserabile. Vladimir «Vlado» Sarzinski, seduto con il suo amico Eso in un caffé con un piatto di carne affumicata e formaggio di Travnik, dice con voce tranquilla e ferma che «la guerra, erano bei tempi». Entrambi sono stati cecchini dell'esercito bosniaco: «Non cambierei quegli anni con nulla al mondo», confessa Eso, «E' l'ultimo decennio che è un problema». «SI RIDEVA DI PIÙ ALLORA» I due tiratori scelti, sportivi di alto livello prima della guerra che non hanno più toccato un fucile dalla firma della pace, sono come Atko l'attore, o come Vojka la poetessa: la guerra ha forgiato una loro identità più forte di quella che riescono a conquistarsi oggi. Dopo le battaglie, la resistenza, dopo l'esaltante spirito di sopravvivenza e solidarietà nella Sarajevo torturata dell'epoca dell'assedio, questa «vita normale» del dopoguerra appare loro tremendamente priva di senso, in un paese dove ad aver vinto sono stati nazionalisti e criminah. «E' un sentimento che può sembrare strano, forse malsano, ma bisogna capire che, durante una guerra, tutto è possibile. Assediati, bombardati, affamati, ci sentivano però forti più che mai», racconta Irma, professoressa di lettere. «Tutto era possibile: la vostra famiglia poteva venire decimata in un secondo, ma potevate anche sentirvi un resistente, un eroe. Sono fiera di essere rimasta a Sarajevo, e di aver contribuito, a modo mio, alla sua sopravvivenza». Atko Glamocak condivide questa visione: «E' un privilegio essere uno degli abitanti della Sarajevo assediata». Durante il conflitto aveva messo in scena decine di spettacoli, in sale ghiacciate illuminate solo da candele. Cosi ha conosciuto la sua futura moglie, una cantante della troupe di «Hair». «Avevo un'energia diabolica, uscivo ogni notte nonostante il coprifuoco, le bombe e gli spari, mentre oggi tendo a rimanermene fermo. La gente ha perso il senso di sohdarietà, ti guarda con sospetto e invidia. Durante la guerra avevamo sofferto, ma si rideva anche, tanto, ogni giomo, ogni notte, mentre oggi prevalgono la tristezza e la frustrazione. Durante la guerra combattevamo per cose essenziali come vivere e sopravvivere, per una certa idea di Sarajevo, mentre oggi il paese sprofonda nel nulla». I NAZIONALISTI AL POTERE II nulla. Nel paese diviso con le sue due entità e i tre territori separati ci sono tre presidenti, tre governi e un centinaio di ministri che rivaleggiano più che altro in incompetenza quando non competono in corruzione. La situazione economica e sociale è catastrofica, con la disoccupazione al 400Zo, salari e pensioni da miseria, un sistema d'istruzione che separa i bambini dentro la stessa scuola secondo criteri etnici insegnando loro l'odio dell'Altro. Un paese che, dieci anni dopo Dayton, viene governato da tre partiti nazionalisti che l'avevano condotto alla guerra e poi a questa pace amara. A Sarajevo si dubita che la città amata prima della guerra sia sopravvissuta: «Sotto la pressione dei profughi musulmani dalla campagnana perso la sua caratte¬ ristica cosmopolita», ritiene Zlatko Dizdarevic, ex editorialista di «Oslobodenje», il giornale dell'assedio. Oggi fa il diplomatico: «Prima della guerra mi ci voleva almeno un'ora per arrivare da casa mia alla città vecchia, tanta gente incontravo per strada. Oggi posso camminare per due-tre ore senza vedere una faccia amica». E' un'osservazione che fanno tutti, con tristezza o rabbia. I «VILLANI» MUSULMANI La struttura della popolazione della capitale bosniaca, passata dai 600 mila abitanti di prima della guerra agli attuali 450 mila, è stata profondamente sconvolta. Tanti, più della metà, sono andati via prima o durante la guerra e non sono mai ritornati, se non per una vacanza o per vendere il loro appartamento. Nel frattempo sono arrivati i contadini musulmani cacciati dalla campagna dagli eserciti serbo e croato durante le operazioni di pulizia etnica. Vengono soprannominati «papak», i villani, non hanno «lo spirito di Sarajevo» e non capiscono perché un serbo o un croato debba restare in una casa che rivendica come sua invece di venire cacciati a loro volta. I cittadini doc si rifugiano in quella che Zlatko Dizdarevic chiama «la piccola cerchia». «E' il caffé di quartiere e gh amici, i vicini. Si va al ristorante o al caffé, si mangia, si beve e si scopa», dice Atko Glamocak, e aggiunge: «Il problema di Sarajevo è che non si fa altro». Oggi gli abitanti di Sarajevo si possono dividere in almeno quattro categorie: quelli che non hanno mai lasciato la città e la cui identità resta fortemente legata alla sopravvivenza durante l'assedio; quelh ritornati dopo essere fuggiti aU'estero prima della guer¬ ra; quelh scappati attraverso la linea del fronte, in campo nemico, per poi rientrare; e i nuovi arrivati, che si sono insediati da meno di due anni, i profughi dalla campagna. Tra queste diverse popolazioni in apparenza tutto va bene. Ma le fratture sono percettibili: «Preferisco avere a che fare con quelh che hanno conosciuto la guerra», dice Vlado Sarinzski, «anche se erano nostri nemici. Li rispetto comunque più di quelh che si sono dati alla fuga». «Non sopporto i profughi dalle campagne, anche se so che hanno sofferto molto, soprattutto le famigbe di Srebrenica», confessa Irma. «Hanno trasformato la nostra città in un villaggio. La qualità della nostra vita non è più la stessa, e non c'è più la natura multietnica di Sarajevo». MEGLIO MORTO CHE GAY In questo paesaggio depresso si resiste con la cultura. «E' un fenomeno. La creatività in rapporto alla situazione economica, politica e sociale è eccezionale», constata Srdan Dizdarevic, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani. «E' una tradizione di Sarajevo che risale ai tempi della Jugoslavia e non è stata interrotta dalla guerra, in quanto è essa stessa un elemento di resistenza». «Credo che la cultura non sia stata eliminata solo perché ai politici non gliene importa niente», dice Zlatko Dizdarevic: «L'assenza di interesse dei dirigenti bosniaci verso la vita culturale ci ha permesso di evitare più o meno le manipolazioni polìtiche e finanziarie», prosegue, «i giovani autori sono poveri, e liberi». Una creatività intensa, che si sviluppa non senza traumi. Il successo cinematografico del momento, «Go West» di Ahmed Imamovic, ha provocato un dibattito violento tra i nazionalisti e i religiosi musulmani perché è una storia d'amore omosessuale tra un musulmano e un serbo durante la guerra. Una storia che avrebbe potuto essere ambientata in un'altra comunità, il rigetto dell'omosessualità è forte ovunque. «E' una faccenda isterica», racconta Ahmen Imamovic: «Gli attacchi vengono soprattutto da giornalisti conservatori. Uno di loro ha scritto che sé un ebreo avesse raccontato l'Olocausto come Imamovic ha raccontato il genocidio dei musulmani bosniaci 3 Mossad si sarebbe occupato di lui. Un appello evidente al linciaggio». Àhmed Imamovic parla, come tutti gh abitanti della città, della «sparizione quasi istantanea dello spirito di Sarajevo». Parla però anche di quelle «famiglie bosniache che preferiscono avere per parente un criminale di guerra piuttosto che un gay». «UNA CITTÀ TRISTE» Senad Hadzifejzovic, presentatore del tg su Television Sarajevo durante la guerra, e oggi animatore di ima trasmissione settimanale di pohtica sulla rete privata Hayat, lamenta «problemi di mentalità». «I politici sono nullità», dice, «i presidenti, i ministri, tutti dovrebbero venire retrocessi in serie D. E la situazione peggiora di anno in anno. Ma l'opinione pubblica non è mighore, non si interessa niente che non si presenti "sensazionale" ed "esclusivo". Ho tentato di fare una trasmissione con i giovani talenti bosniaci che tornano dopo cinque o dieci anni aU'estero, sono intelligenti, laureati e pronti a servire il loro paese. Ebbene, nessuno h ha incoraggiati, nessuno li ha assunti». Jovan Diyjak, unico generale serbo dell'esercito bosniaco, oggi presidente di un'associazione che aiuta gh orfani di guerra, dice che «la città è triste»: «In Bosnia se non appartieni a uno dei tre partiti nazionalisti, sei solo, senza diritto, senza voce. E' un sistema nato con la guerra e poi con Dayton, e continua a venire sostenuto dalla comunità intemazionale. Io, serbo di Sarajevo e antinazionalista, non sono nessuno a Banja Luka, capitale della repubblica serba, perché ho combattuto l'esercito serbo, e non conto pohticamente nulla qui. Per fortuna, la gente che meontro per strada mi vuole bene, così gh ex combattenti, e, naturalmente, le donne», dice ridendo. Il giornalista e scrittore Ozren Kebo afferma che «molti dei sopravvissuti ah'assedio sono morti nei cinque anni successivi». Malati, depressi, suicidi. Crede che «Sarajevo ha salvato la sua anima, perché vive senza odio. E' un sentimento forte in tutto il mondo, ma non qui e questo mi piace. Ma la città è stata ferita. Tutto il mondo viene tratto in inganno dalla pace. Durante la guerra avevamo una visione molto romantica, molto idealista della pace. U dopoguerra invece è stato doloroso e complicato». Copyright © Le Monde AtkoGSamocak «Per dirla francamente abbiamo scoperto che preferiamo i bombardamenti a questa pace insulsa e insensata Sarebbe meraviglioso avere una guerra senza però più morti ammazzati» Ozren Kebo «Molti dei sopravvissuti sono morti nei cinque anni successivi Malati, depressi, suicidi Siamo riusciti a salvare la nostra anima Viviamo senza odio Ma l'idea che avevamo del dopoguerra era solo un sogno romantico» Un'immagine simbolica della devastazione di Sarajevo, una città che per tre anni e mezzo visse tra la vita e la morte Il monumento a Bruce Lee inaugurato ieri a Mestar, ritenuto simbolo di pace tra i popoli