«La nostra vita dopo la diagnosi»

«La nostra vita dopo la diagnosi» L'ONCOLOGO FRANCESCO COGNETTI COMMENTA LE LETTERE ARRIVATE A «LA STAMPA» «La nostra vita dopo la diagnosi» C'è vita dopo la diagnosi. Ci sono momenti di sconforto e dolore, di paura; ma anche passioni, relazioni, speranze, sfide, amore, risate. Lo hanno raccontato, sulle colonne de «La Stampa», l'imprenditore Piersandro Pignataro e l'attrice Raffaella De Vita, che convivono entrambi con il cancro. Nei giorni successivi alla pubblicazione delle loro storie, alla redazione sono arrivate moltissime testimonianze: decine e decine di lettori hanno voluto raccontare e condividere la propria storia di malati che non s'arrendono e non si disperano, semplicemente vivono. Queste testimonianze le abbiamo lette insieme ad un oncologo, Francesco Cognetti, direttore scientifico dell'Istituto Tumori Regina Elena di Roma. intervista DANIELA DANIELE «Cancro, tumore: parole che ti colpiscono allo stomaco e ti mandano al tappeto. In questo mondo di veline e calciatori dai fisici perfetti, dove si fa di tutto per farti vivere fino a cent'anni, queste due parole hanno ancora il potere di terrorizzare». Nello sfogo di Antonio Ruggieri, cinquantacmquerme in guerra contro la malattia, c'è tutto il senso del dialogo aperto da La Stampa tra i malati oncologici sul tema «C'è vita dopo la diagnosi». Del bisogno di confrontarsi, per non sentirsi soh. La sobtudine, poi, si fa più gelida di fronte ai termini medici, alle richieste di esami, alle attese, ai prelievi. Medici e infermieri sono, all'inizio, intrusi che violano la privacy. In seguito, compagni di lotta. Francesco Cognetti, direttore scientifico dell'Istituto Tumori Regina Elena, di Roma, ha vissuto tante storie come quelle che ci hanno raccontato i lettori. Ha combattuto, anche lui, tante battaglie. E il ruolo dell'oncologo è tutt'altro che facile. C'è chi, come il lettore che si firma Tito Delton, ap- Srezza il parlar chiaro fin a subito da parte dei medici. Professore, è bene dire tutto ai pazienti? «Venticinque anni fa, quando incominciai a fare questo lavoro, non si poteva dire assolutamente nulla. Né sulla diagnosi, né sulle terapie. Tutto era più difficile, soprattutto perché allora, molto più di oggi, i trattamenti erano invasivi. L'alleanza tra medico e paziente faUiva. I familiari facevano barriera perché volevano tener nascosta la malattia e anche ai medici, spesso, andava bene così: è molto più facile parlar poco con il malato e di¬ spensare solo terapie, senza dare spiegazioni. Comunicare implica capacità e tempo». Inoltre, non tutti i pazienti sono uguali... «Ognuno si porta dietro il proprio grado di cultura e ogni situazione va gestita con grande delicatezza. Oggi, comunque, noi medici non siamo più autorizzati a trattare chiunque senza averlo prima informato sulla patologia di cui è affetto». E come dev'essere la comunicazione? «Professionale, certo, ma anche umana. Non si può spiattellare al paziente numeri e statistiche, perché non si sa mai, con esattezza, chi sia la persona che si ha di fronte, né come possa reagire». Non si dà una preparazione specifica ai medici per questo arduo compito? «No. E non guasterebbe se ci fosse. Anche se poi, è bene che ognuno ci aggiunga qualcosa della propria sensibilità e dell'esperienza sui meccanismi più elementari che ogni individuo mette in moto di fronte a una diagnosi del genere». Lo stesso lettore ringrazia la capacità di comprensione psicologica del personale con cui ha avuto a che fare. Quanto è importante in malattie come queste? «Può sembrare un luogo comune, ma è un fatto accertato: la comprensione psicologica e l'atteggiamento che ne deriva sono importantissimi anche per la gestione della malattia, per attenuare gli effetti collaterali dei farmaci e migliorare il grado di sopportabilità dei trattamenti. La sensibilità del personale infermieristico è legata alla personalità di ognuno, ma è anche fortemente condizionata dall'esempio del medico curante. Dirò una cosa che potrà suscitare scandalo, ma sono convinto che il medico faccia modello per gh infermieri. Dunque, un medico che sottovaluti, nella relazione con il paziente, alcuni aspetti formali e psicologici, può rischiare di avefe al proprio fianco personale meno attento nei confronti dei malati. Ci tengo a dire, però, che nella maggior parte dei casi, gli infermieri dei reparti oncologici sono davvero speciali, perché su di loro ricade lo stress più pesante, il rapporto continuo con i pazienti e con i familiari. E sono loro, spesso, a sostenere le crisi di depressione dei malati, in modo ammirevole». Maria Stefania Marello ci racconta la storia della sua amica Lia (amica o alter ego?) che, operata di carcinoma del seno, si sente rinascere alla prospettiva di un intervento ricostruttivo. Alla fine del percorso, si guarda allo specchio, cosa che normalmente prima non faceva spesso, e dice a se stessa: sei ancora viva e il tuo seno non è niente maleQuanta importanza ha il modo di affrontare la tempesta fìsica e mentale che tuia diagnosi di cancro produce ? «Davvero molta. Un atteggiamento positivo aiuta nella sopportazione dei trattamenti e, quindi, nella buona riuscita delle terapie stesse». L'essere combattivi aiuta? «Si. All'inizio, per la quasi totali¬ tà dei pazienti, la diagnosi è una mazzata violenta. La domanda di tutti è: perché proprio a me? Prostrazione, dunque, e grave abbattimento morale. Dopo, però, vengono messi in atto meccanismi difesa, soltanto una minoranza non riesce a svilupparb». Una lettrice, Ilaria Guerra, ci annuncia che, dopo la sua esperienza, ha scritto un libro che sarà presto pubblicato. Quanto una malattia del genere può cambiarti la vita? «Tanto. Tutto diventa molto : più relativo. Valori che prima erano considerati priori- : tari, sono di colpo ridimensionati. Si acquista una grande umanità e si prova soUdarietà per aver vissuto e condiviso la propria esperienza insieme con al- | tn malati. Si può assistere a un cambio sostanzia- j le della personalità, spes- ì so in soggetti prima poco inclini al rapporto con il prossimo». Molta forza per conti nuare ad avere speranza arriva dal confronto tra pazienti accomunati dagli stessi percorsi. «Coni medici - ci scrive una donna cinquantenne - il discorso è più difficile: loro imp^rsonifìcano la scienza, si parla con loro dei farmaci, degli effetti collaterali, delle difese im- ^ Piacersi ancora Lia si specchia spesso e dice a se stessa: «Sei ancora viva e il tuo nuovo seno non è niente male» Non solo pazienti «E' bello quando il medico di turno viene nella stanza a parlarti del tempo 0 dello sport» Francesco Cognetti » so nti o è una manda a me? grave o, pemeccaminoarb». uerra, po la critto resto una può olto : priori- : nna va ua - | j ì za arra pai stesici - ci quanè più nifìcaa con effetti se im- ^ u ....i J.iHO.-!'»1 h •'"'-,', .li ;i ■>■.■ OS- \ ',. di 'fo . 41 - -fi )«- •■''^ cf"*' 4,. v.u u»''» t,,v *kf,ìfv*,u. .faro, 1 t*,A u ■VVi «ìv*- S^?, r.oo- ia. ^ ...U ksp JXf'V'' xy. /».«fe, -^ cU ■U'e IM* «fc* ^ JM^ «^.. ;ù.t*M*' •m* 'j^AV^ -o ■u-C ■^■v. 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Le statistiche fanno paura, anche se le guarigioni aumentano. Ma l'essere umano è pieno di risorse. Ne è convinta Paola Sacchi che ci dice: «Anche un po' di sana rabbia ti aiuta a lottare e nessuno riesce a fare niente per te se tu per primo non fai qualcosa». E' questa la nuova generazione di malati. Di quelli che, sempre più spesso, ricacciano 1'«invasore».

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