Fatti, feticci e fatticci: a verità è un ibrido di sapere e di fede di Gianfranco Marrone

Fatti, feticci e fatticci: a verità è un ibrido di sapere e di fede Fatti, feticci e fatticci: a verità è un ibrido di sapere e di fede Gianfranco Marrone A metà Settecento sulle coste della Nigrizia, in Guinea, un gruppo di portoghesi, armati di tutto punto e ricoperti di amuleti della Vergine, incontra un gruppo di indigeni che idolatra imo strano oggetto. Interrogati dai conquistatori, gh indigeni spiegano che quel piccolo oggetto è la loro divinità, e che essi stessi Ibanno appositamente costruito per poterla adorare. I portoghesi mettono mano alle spade per punire gh idolatri. Tuttavia, hanno un attimo di pietà e chiedono chiarimenti: «Come è possibile che una cosa sia un dio e al tempo stesso un artefatto? non vedete la contraddizione?». I poveri indigeni, congh occhi fissi agli amuleti che ornano le armature dei guerrieri, non colgono la questione metafisica, prendono la domanda come un'intimidazione, e muoiono sgozzati. E i colonialisti si giustificheranno così; «L'oggetto che gh indigeni adoravano non era im^feito (cioè un "fatto"), era semmai un feitigo (qualcosa come un "fattino", un "fatticino", forse un "fatterello")». Raccontando anni dopo questa vicenda, il francese Charles de Brosses traduce maldestramente l'espressione portoghese, e conia di fatto un nuovo termine {/eriche, «feticcio»), preoccupandosi comunque di dotarlo di ima ben più nobile etimologia (da fatum, «destino»). Al termine corrisponde per de Brosses un'opinione precisa - gli indigeni adorano loro artefatti che considerano divinità - destinata ad aver molta fortuna, non solo fra gli antropologi dell'epoca colonialista ma, più in generale, nella cultura moderna. È noto per esempio che un pensatore acuto come Marx parlerà della merce capitalistica usando l'espressione «feticcio» e l'idea che lo sostiene. Il feticcio, a poco a poco, diventa l'emblema di tutto ciò che dipende da un errore di prospettiva, da un'illusione, dalla credenza in una realtà presunta oggettiva che, come diceva appunto Marx, tende a nascondere il lavoro necessario perprodurla. Avendo lavorato per un lungo periodo nell'equipe parigina di etnopsichiatria diretta da Tobie Nathan (quotidianamente impegnata nello sciogliere i disturbi legati alle migrazioni fra culture diverse), il sociologo e filosofo Bruno Latour ha provato a ripensare la questione alla luce delle sue precedenti ricerche in un campo a priva vista molto diverso; quello delle pratiche scientifiche e della tecnologia. Benché poco conosciuto in Italia (esistono però in traduzione suoi libri come I microbi, La scienza in azione, Non siamo mai stati moderni. Politiche della natura), Latour è senz'altro uno dei pensatori più acuti e originah attualmente in attività. Nel suo primo lavoro, LaboratoryLife (1979), aveva osservato quel che accade nei laboratori scientifici, dove rapporti umani talvolta difficili convivono con l'uso non sempre competente di apparecchiature molto sofisticate, con i rapporti di vassallaggio nei confronti del mondo politico e imprenditoriale che finanzia i progetti di ricerca, con le relazioni accademiche non sempre idilliache. E aveva di conseguenza additato l'enorme distanza fra questa realtà, per così dire, etnografica, e l'immagine edulcorata della scienza che i filosofi (il senso comune, i media) ci rimandano; garanzia assoluta di razio ■ nalità e di rigore metodologico, ma soprattutto di oggettività. Un genio della chimica come Pasteur, ricorda in un altro testo Latour, non aveva difficoltà ad ammettere che gh era stato possibile scoprire il fermento lattico sol perché lui stesso aveva pazientemente creato le condizioni per poterlo osservare: altrimenti non sarebbe esistito. I fatti della scienza, dunque, sono oggettivi perché c'è qualcuno che, in determinate condizioni individuah e sociah, h ha predeterminati per essere considerati tali. Si arriva così al prezioso e denso libretto del 1996, ora edito in Italia, U culto moderno dei fatticci, dove Latour, mimando e rovesciando il gesto di de Brosses, propone un nuovo termine faitiche (qui tradotto con «fatticcio») - che ripensa insieme la questione epistemologica dei fatti scientifici e quella antropologica deUe superstizioni religiose. Così come gh indigeni producono i loro idoli, che poi adorano come divinità a sé stanti, gh uomini di scienza costruiscono i fenomeni naturali, che poi considerano esi¬ stenti a prescindere dal loro lavoro. Giocando con le etimologie, Latour sostiene che forse non è un caso se la parola «feticcio» venga da «fatto». È come se fosse un fatto più piccolo, forse più carino: una specie di diminutivo che cela un vezzeggiativo. Fatti e feticci, apparentemente opposti, sono la stessa cosa: il fatticcio è la loro comune verità, ciò che svela il lavoro necessario per far diventare i primi oggettivi e i secondi soggettivi, i primi legati al sapere e i secondi alla fede, i primi alla natura e i secondi alla religione. In un momento in cui sembra tornata in auge, annacquata, la disputa filosofico-teologica tra universalismo e relativismo, la lettura di questo libretto di Latour non può cht essere illuminante. Il problema, die non è quello di propendere per una deUe due posizioni, o peggio ancora di dimostrarne la validità razionale. È semmai quello di scansare una scelta in fin dei conti intimidatoria, come quella proposta dai portoghesi agh indigeni, una scelta che nasconde come le due posizioni siano in fondo en- trambe vere per fede: entrambe sono sistemi di valori da assumere soggettivamente, per poi oggettivarli a cose fatte. Latour si dimostra in tal modo, ha sostenuto Isabelle Stengers, un «sofista non relativista»; qualcuno che crede nella pluralità dei discorsi e dei valori, ma soprattutto nel loro dialogo, nella continua traduzione degh uni negli altri, senza per questo ritenere che tutti i discorsi e tutti i valori siano uguah, intercambiabili, esistenti da sempre e per sempre. Per lui, l'identità culturale è un ibrido antropologico che ha dimenticato di esserlo. E l'ibrido, a sua volta, non è il punto di arrivo casuale di un fastidioso incrocio fra etnie dovuto a cause di forza maggiore, ma il prodotto nonnaie e momentaneo della dinamica deUa storia. Ammetterlo è assestarsi in una posizione, dice Latour, «agnostica»; una posizione che, riuscendo a evitare il ricatto della scelta a tutti i costi, cerchi di capirne le ragioni profonde. A rischio della solitudine. L'originale ricerca del sociologo Latour, «sofista non relativista»: gli idoli e i valori, come le teorie della scienza, sono una nostra costruzione, un prodotto dinamico della Storia Il sociologo Bruno Latour Bruno Latour I culto moderno dei fatticci a cura di Cosimo Pacchila Meltemi, pp. 7 79, «73 SAGGIO

Luoghi citati: Guinea, Italia