Quando il cinema parlava in didascalie di Gianni Rondolino

Quando il cinema parlava in didascalie Quando il cinema parlava in didascalie Gianni Rondolino QUANTO poteva guadagnare uno scrittore negli Anni 10 del secolo scorso, quando il cinema muto italiano era al suo apice, se vendeva a una casa cinematografica un soggetto originale? Luigi Pirandello pare si accontentasse di 500 lire (pari a circa 1200 euro di oggi), mentre Gabriele D'Annunzio nel 1911 ne pretese 4.000 per concedere alla Casa Ambrosio i diritti di riproduzione cinematografica di ciascuna delle opere di cui al contratto. E, come si sa, volle ben 50.000 lire nel 1914 per "riscrivere" le didascalie del film Cabiria, prodotto dall'Itala Film e diretto da Giovanni Pastrone. Guido Gozzano, dal canto suo, per scrivere la sceneggiatura del film su San Francesco nel 1916 (il film non fu realizzato, ma la sceneggiatura esiste ed è un'opera letteraria di tutto rispetto) pretese solo 4000 lire. Insomma ogni scrittore si regolava alla meglio (o alla peggio) in base a calcoli personali, convenienze economiche, imposizioni ecc. Così per Giovanni Verga o Roberto Bracco, Grazia Deledda o Antonio Beltramelli e molti altri scrittori più o meno noti e di successo. Lucio D'Ambra, ad esempio, dopo il trionfo del suo film II re, le torri, gli alfieri del 1916, raggiunse la cifra, «favolosa per allora», di 25.000 lire a sceneggiatura. Queste e altre informazioni ci vengono dal ricco e articolato libro di Silvio Alovisio, Voci del silenzio, frutto di ima ricerca pluriennale che riprende e rielabora la tesi di dottorato dell'autore. Un lavoro per molti versi nuovo e originale, non foss'altro perché, mentre si è molto scritto sui registi, gli attori, le case di produzione, i film del periodo muto, poco invece si sa degli sceneggiatori e dei soggettisti, quasi mai citati nelle storie del cinema, ignorati dai più (come si lamentava, con ragione, uno di loro, fra i più noti e importanti, Arrigo Frusta, che deUa Casa Ambrosio fu per molti anni lo sceneggiatore capo). Alovisio indaga con precisione e puntualità il vasto materiale proveniente dagli archivi del Museo Nazionale del Cinema e scopre non poche cose interessanti e curiose. Soprattutto ci dà un quadro generale della situazione degli sceneggiatori nell'industria cinematografica italiana del tempo, cioè fra gli Anni 10 e 20 del Novecento. Ma non tanto vuole parlare degli scrittori noti, che magari al cinema diedero per lo più un contributo marginale e occasionale, quanto dei veri e propri sceneggiatori, assunti dalle case per costituire un vero e proprio Ufficio Soggetti, spesso più influenti dei registi, il cui statuto artistico non era ancora del tutto definito. Registi che, anche in Italia, si chiamavano allora metteurs en scène. E il sohto Arrigo Frusta (al secolo Sebastiano Ferraris) nelle sue memorie scrive: «Non confon- diamo il regista di oggi con il metteur en scène di allora. La stessa parola metteur en scène delimita i confini del suo lavoro». Che era spesso di sempbce esecutore di ima sceneggiatura già scritta. E Frusta, come documenta Alovisio, corredava i suoi testi cinematografici con una serie di annotazioni tecniche, tanto da essere, a volte e di fatto, il vero autore del film. Ma Frusta, come molti suoi colleghi, non guadagnava certo le cifre che abbiamo citato. Il suo stipendio all'Ambrosio, quando venne assunto nel 1909, era di 300 lire al mese, con l'obbligo di fornire mensilmente tre soggetti. E n ^gli anni seguenti la sua attività, come bene documenta Alovisio, analizzando puntualmente numerose sue sceneggiature, andò intensificandosi sempre di più, diventando egli uno degli elementi di punta della casa cinematografica, quasi al pari del produttore, degli attori, dei tecnici e dei registi. Anzi, in certi casi, più di essi. Così come accadde a Renzo Chiosso, «insegnante, funzionario municipale, pubblicista, poeta dialettale, novelliere, autore drammatico», amico di Guido Gozzano e di Nino Oxilia, ma soprattutto noto per i suoi rapporti con Salgari, di cui scrisse T'autobiografia" postuma, uno dei più famosi "falsi" salgariani. Un personaggio, come ce ne furono molti allora nel cinema italiano e non solo italiano, avventuroso e avventuriero, per il quale il nuovo mondo cinematografico poteva offrire non poche occasioni per una promozione economica e sociale. A leggere questo libro corposo, unpo' "accademico" e infarcito di note ma scorrevole, vien fuori un panorama del cinema muto italiano, soprattutto di quello torinese negli anni a cavallo della prima gueira mondiale, sfaccettato e spesso inedito. Un panorama che si va facendo, nella seconda parte del libro, anche gustoso e sorprendente, a mano a mano che Alovisio entra nei dettagli, nelle analisi dei testi, nelle comparazioni letterarie e filmiche. Consentendoci di entrare in quel laboratorio cineletterario, dietro le quinte dei set, dietro lo schermo, da cui nacquero centinaia di film, spesso di grande successo popolare. Una ricerca sull'epoca del «muto» e sul ruolo degli sceneggiatori, misconosciuti o celebri, da D'Annunzio a Gozzano Una scena di «Cabiria»: nel 1914 per riscrivere le didascalie del film di Pastrone D'Annunzio pretese 50 mila lire Silvio Alovisio Voci del silenzio Il Castoro pp. 446. G27.50 S A G G

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