Il triste hip- degli ex bambini-soldato

Il triste hip- degli ex bambini-soldato SI VOTA ÌN LIBERIA L'EX GIOCATORE DEL MILAN WEAH PUÒ DIVENTARE PRESIDENTE Il triste hip- degli ex bambini-soldato Hamio deposto le armi e provano a fiiggire il destino che li attira nelle reti criminali Fabio Trincia MONROVIA (Liberia) Senza gli imponenti pannelli decorati che corrono lungo le sue mura, L'Edward J. Roye Memorial Building di Monrovia passerebbe inosservato come le altre centinaia di edifici in rovina di cui abbonda la capitale liberiana. La lunga guerra civile e i numerosi saccheggi nel corso degli anni lo hanno spogliato di tutto. I finest.roni da tempo senza vetri filtrano l'ultima luce del tramonto, che illumina pozze d'acqua stagnante in saloni grigi e vuoti, impregnati dell'odore di urina e spazzatura. Nemmeno troppi anni fa, questo edificio a l'angolo tra Ashmun e Buchanan Street rappresentava il cuore pulsante della vita politica e culturale liberiana. Qui aveva sede il True Whig Party, il potente partito fondato dagli schiavi liberi che, lasciate le piantagioni di cotone americane, sbarcarono sulla costa di Montserrado e dettero vita, nel 1847, al primo Stato indipendente dell' Africa: la Liberia. Fino al colpo stato del generale Samuel K. Doe nel 1980, gli americo-liberiani mantennero il controllo della scena sociale, politica ed economica del Paese, a dispetto delle popolazioni indigene. Oggi, dopo venticinque anni di instabilità e conflitti, un gruppo di ragazzini vestiti di stracci balla l'hip bop sulle rovine di quella che un tempo doveva essere una platea gremita di presidenti, ministri e ambasciatori. Dopo una vita passata a fuggire dai bombardamenti e dai massacri perpetrati dalle milizie dell'ex signore della guerra Charles Taylor, che spesso li arruolava bambini per costringerli a commettere indicibili atrocità, alcuni di loro hanno trovato, nell'enorme edificio spoglio, una casa dove inseguire un sogno: quello di diventare attori. «Siamo qui per darci un'iden- tità, un ruolo e una ragione di speranza», dice Papa Kamara, 19 anni, ex profugo in Guinea nei primi anni '90 e ora leader di un gruppetto di ballerini, ilD.D. Dance Crew. In sottofondo, un vecchio registratore emette melodie rap. «Ci alleniamo cinque ore al giorno per produrre un film-musical da proporre a qualcuno. Qui da noi in Liberia non esiste un'industria cinematografica, i film in vendita sono solo nigeriani o indiani. È ora che i nostri connazionali vedano film liberiani». Resta un piccolo problema: a Kamara e soci mancano i soldi per comprare una telecamera. Poco lontano, in una delle vie più trafficate della città, centinaia di piccoli orfani si fanno strada tra le macchine in fila. I figli della guerra bussano ai finestrini per vendere sigarette e biscotti. Molti di loro non conoscono la sorte di genitori e fratelli al termine del conflitto. E dopo tanti anni nemmeno li riconoscerebbero. Nei bassifondi di Monrovia la legge dello Stato non è mai arrivata: i più deboli devono sopravvivere a quella che qui chiamano jungle justice. La egge della giungla. Risse furibonde per poche banconote, furti, abusi sessuali e sfruttamento del lavoro. Privi di un tetto, oltre che di ogni assistenza medica e sociale, il destino di orfani di strada e degli ex-bambini soldato è uno dei grandi punti interrogativi della tanto agognata ricostru- zione promessa a gran voce da tutti e ventidue i candidati che il prossimo 11 ottobre si presenteranno alle elezioni presidenziali, tra i quali c'è George Weah, l'ex centravanti del Milan. Anche perché, tra qualche anno, questi stessi ragazzi rischiano di restare intrappolati nella vasta rete criminale libe¬ riana. Sempre che riescano a sopravvivere. Come Bryan, ventisette anni, che vive tra i ruderi di quello che fino ai primi Anni '90 era un elegante quartiere residenziale a pochi passi dall'Oceano Atlantico. Oggi sembra lo scenario di un film ambientato in un'era post-atomica tropicale. In tempi migliori il luogo si chiamava Hawaii Beach. Oggi gli sfollati che lo abitano abusivamente l'hanno ribattezzato Somalia Beach. Un nome, un destino. Prima di arrivare qui, Bryan era stato costretto ad arruolarsi, ancora adolescente, tra i ribelli del National Patriotic Front di Taylor. «È stato terribile, ho assistito a ogni tipo di atrocità», racconta mentre si appoggia alla protesi che sostituisce una gamba persa in un bombardamento. «I ribelli erano imbottiti di droga e odio. Hanno sgozzato, violentato e saccheggiato. Bruciavano case e capanne, specie dei sostenitori del governo o di un gruppo etnico rivale. Anch'io partecipavo ai saccheggi, ma non ho mai avuto la forza di uccidere. Quando la guerra è finita non avevo più nulla. Quelli del programma nazionale per il disarmo hanno promesso di pagarmi la retta per tornare a scuola, se avessi consegnato il mio fucile. Ho accettato. Ma la scuola ha chiuso 4 mesi fa». Dalla commissione nazionale che ha programmato la smobilitazione, il disarmo e il reintegro degli ex-combattenti (Ncd- drr) ammettono che l'operazione è stata completata a metà per problemi di fondi: chi consegnava l'arma riceveva trecento dollari e gli studi pagati. O almeno la promessa. Molti degli oltre centomila che hanno aderito sono rimasti a mani vuote. E nel villaggio di Jendema, al confine con una Sierra Leone altrettanto devastata, alcuni locali giurano di aver visto numerose armi da fuoco mai riconsegnate. «Eppure il disarmo doveva essere una delle colonne portanti della ricostruzione», si lamenta Molley Paasewe, un portavoce della commissione. «Così non costruiremo nulla. Resteranno solo ex-combattenti pronti a tutto». Nella scorsa primavera alcuni di loro hanno scatenato una vera guerriglia urbana nella città settentrionale di Canta dopo la chiusura di una scuola. E quasi un anno fa, il 15 di ottobre del 2004, Monrovia ha rivissuto, in una notte d'incubo, la guerra civile. Negli scontri fu coinvolta la comunità mandingo, morirono 15 persone e alcune case furono incendiate, compresa quella del ministro della Giustizia, Kabineh Janneh. Riconoscere gli ex combattenti nel viavai della capitale liberiana non è difficile. Agli angoli delle aree più miserabili capita di imbattersi in giovani allampanati che parlano da soli, scossi da raptus isterici. Una città fragile e imprevedibile. Alla quale Jackson Buah, giovane ragazzo di strada, ha appena fatto ritomo dopo quindici anni in un campo profughi della Sierra Leone, dove era arrivato in fasce al seguito della famiglia. «Perché tomo solo ora? Perché è solo ora che mi sento davvero sicuro. E poi dove stavo prima ho ricevuto intimidazioni e minacce da parte di alcuni ex combattenti. Ho vissuto tutta la vita lontano dalla mia terra madre. Per ora aspetto in un campo per sfollati fuori Monrovia. Spero che il prossimo presidente ci costruisca stra- de, scuole e ospedali e ripristini l'elettricità». L'impresa (quasi impossibile) non finirebbe sui libri di storia. Ma resterebbe nella memoria dei milioni di persone che dalle sei di pomeriggio in poi scivolano nelle tenebre, tra i bagliori di qualche lampada a olio e il rumore assordante dei generatori elettrici. Rifugiatisi al terzo piano di un palazzo sventrato da una granata, Jerry e Sidiki non hanno mai visto acqua corrente ed elettricità. Hanno perso tutti i familiari a Lofa County durante la guerra e ora languono nei conidoi umidi e bui dell'edificio. Non amano ricordare il passato. E non si aspettano niente dal futuro. «L'unica cosa in cui possiamo sperare è che il prossimo presidente della Liberia porti un po' di serenità. Finora guerra, violenza e povertà hanno distrutto la nostra vita». Si balla sulle rovine del Memoria! Building di Monrovia un tempo ricca platea di ministri e ambasciatori Qui il signore della guerra Charles Taylor arruolava ragazzini per costringerli a commettere atrocità «Ho consegnato il fucile e hanno promesso dì pagarmi gli studi. Ma ora la scuola è stata chiusa» Giovani supportar del candidato presidente George Weah. Fra loro anche ex bambini-soldato che sperano in «un po' di serenità»