L'ultima notte a Gaza fra rabbia e rassegnazione

L'ultima notte a Gaza fra rabbia e rassegnazione SGOMBERO ENTRO IL 17. CONTRO GLI IRRIDUCIBILI E PRONTO A ENTRARE IN AZIONE UN ESERCITO DI 50 MILA UOMINI L'ultima notte a Gaza fra rabbia e rassegnazione «Un giorno osserveremo da lontano e diremo: Guardate, noi abitavamo lì» reportage FIAMMA NIRENSTEIN inviata a GAZA Scende l'ultima notte sul Gush Kativ israeliano di Gaza: nera, umida, stupefatta, inadeguata. Le onde mediterranee dicono addio alle case col tetto rosso degli israeliani, alle loro serre. Con lo stesso ritmo saluteranno il nuovo mondo che si approssima, i palestinesi che fra qualche giorno, con le bandiere e gli autobus, sciameranno verso le parti della Striscia che chi ha meno di 38 anni non ha mai visto. Ormai sono parecchi i camion carichi di masserìzie che attraversano il check point di Kissufim. A mezzanotte entreranno i soldati e i poliziotti, 50 mila uomini. Uri segno dell'immensa difficoltà della vicenda: devono sjgomberare solo 8.000 persone di cui circa la metà stanno impacchettando i loro beni. Ma ci sono anche i 3.000 ragazzi entrati clandestinamente, che saranno lo zoccolo duro della resistenza. I soldati sono pronti, per mesi hanno provato le scene del pianto delle donne e dei bambini, della resistenza fisica dei giovani, lo strazio di trascinare via anziani e disabili. La notte è scesa, nessuno dorme, di qua e di là dal confine che fra tre giorni diventerà il confine con l'Autonomia palestinese. Non donne la gente nelle case, non dormono i soldati pronti ad agire. Andranno di porta in porta a chiedere di uscire entro il 17 mattina: a Netzarim, a Nevet Dkalim, a Kfar Darom, ad Alei Sinai., nei 21 insediamenti dove Ytzhak Rabin in persona mise le prime mesusot, il segno di benedizione che orna la casa di tutti gli ebrei del mondo, promettendo che quelle case, quelle serre, quelle fabbriche sarebbe rimaste per sempre. Ci sono famiglie che tremano all'idea 'li vedere il loro figlio in divisa apparire sulla sogha della casa in cui è cresciuto, a intimare lo sgombero. La notte arriva dopo che la gente del Gush ha digiunato da sabato sera. È Tisha Be Av, ricorrenza tragica nella storia ebraica, perché ricorda sia la distruzione del Primo Tempio nel 586 a.C. che quella del secondo, nel 70 d.C., quando gli ebrei, sconfitti dalle legioni dell'imperatore romano Tito, ma anche da violentissime lotte inteme, persero Gerusalemme. Nella casa di Nevet Dkalim che appartiene a Rachel e Moshe Sapperstein, si è accampata una strana, piccola tribù: un pastore olandese con la moglie, una coppia di Tel Aviv, lui è avvocato, tre ragazzi infiltrati. Sono tutti convinti che questo sia un altro Tisha be Av, dopo i primi due, dopo la cacciata dc-gli ebrei dalla Spagna nel 1492 e la Shoah. Difficile convincerli che di là da Kissufim c'è oggi per prima volta nei secoli lo stato di Israele e non un mondo ostile, privo di approdo. Rachel, la padrona di casa, rotonda, corti capelli biondi, ima camicia arancione beve e trasparente, gurda dalle grandi finestre ad arco i fiorì rosa e gialli e gli ulivi che ha piantato negli anni. Alla parete un grande ritratto di Mahler. Moshe, giornalista, per anni titolare di una rubrìca sul Jerusalem Post, un rosso di buon carattere che ha perso un braccio e una gamba nella guerra del '73 e che poi ha avuto l'altra mano distrutta in un agguato a fuoco vicino a casa, esce sbadighando dalla camera dóve nel tardo pomeriggio si è concesso un riposino. C'è solo da aspettare. La sera la tribù, che non ha impacchettato niente, che non se ne vuole andare, si dà un'aria serena, come conviene ai combattenti, ma è furiosa. Rachel parla di un «disastro umanitario, condannato secondo la carta dei diritti dell'uomo». «Abbiamo tentato per mesi di uscire da qui con onore - dice ma nonostante alla tv proclamino che "c'è una soluzione per tutti", in realtà il governo non ha trovato case e neppure caravan, solo orrende stanze d'albergo. Noi volevamo soluzioni collettive, perché viviamo collettivamente da vent'anni; e decenti, perché abbiamo case curate e ampie. La fretta, l'incompetenza, la insensibilità di Sharon non ci hanno consentito di trovare la minima motivazione per andarsene. Pensi che se accettiamo una di quelle "caraville" prefabbricate a Nitzan, le migliori fra le miserabili soluzioni offerte, dovremmo pagarci 450 dollari al mese di tasca nostra. No, noi restiamo qui, fino a quando non ci trascineranno via. Mi sembra la cosa più decorosa da fare». In molti, al di là di ogni opinione pohtica, condividono la sensazione di essere alla vigilia non già una vita nuova, ma di un destino da profughi, ammonticchiati, provvisori, senza lavoro né dignità sociale. In verità, Jonathan Bassi, il pacato e coraggioso incaricato di Sharon che in quest' ultimo anno ha cercato in ogni modo di convincere i coloni a chiamare l'ufficio destinato a distribuire case e lavori, ha ricevuto risposte tardive e ostili, fino a che ha lanciato un pubblico grido di dolore: «Non vi accorgete che uscirete nudi come Adamo e Eva? Che lascerete morire le vostre bestie e le vostre piante? Che i vostri figli non avranno un posto a scuola a settembre?» Molti se ne sono accorti solo da un paio di giorni. Non solo perché aspettavano il messia, ma anche perché speravano che quei maledetti 150 mila shekel di risarcimento per la casa (meno di 30 mila euro), diventassero ima cifra più consistente. E ora si accingono a una vera fuga dall' Egitto. Due case l'ima di fronte all'altra nel piccolo insediamento di Bdolach (35 famiglie) offrono in queste ore due diversi spettacoli di ansia. La casa di Dadi Sigdon doveva essere molto bella: un salone affacciato sul mare, una cucina che pare uscita da un film americano, cinque camere per una famiglia con cinque figli Ora ci aggiriamo per stanze da cui tutto è stato divelto, finestre, porte, vasche da bagno, doccia. Tutti, compresi zii e vicini, aiutano, anche nottetempo, a portare via tutto ciò che si può. In ogni stanza i bambini hanno lasciato graffiti, probabilmente contenti di avere finalmente il permesso di scrìvere sul muro. Per terra sono restati i colorì a cera con cui è stato scritto: «Il regno incanta¬ to della principessa Luli», che ha sette anni. Su un muro si legge: «La famiglia di Dudu e Smadar e i bambini, fu». Tutti sono furiosi: «Non è chiaro, non è chiaro che cosa vogha Sharon - ripete Elisba, uno degh zii - io per la pace sono pronto a sudare., però ci dovevano trattare meglio». Di fronte invece c'è Yacov, che sta preparando i pacchi e le casse, ma non si vuole fare vedere. Lavorerà tutta la notte in silenzio, ma domani dovrà cominciare anche lui a usare il trapano. Forte e strìdente, come lo sentiamo risuonare nella notte: copre il rumore delle onde, del vento. Questa notte sarà l'ultimo ricordo a cui molti si attaccheranno per tutta la vita. «Un giorno guarderemo da lontano, col cannocchiale e diremo: guardate, abitavamo là e i nostri ulivi e le nostre insalate erano i migliori». Rachel: «In tv dicono che c'è una soluzione pertutti ma il governo ci ha trovato solo orrende stanze d'albergo Nel bagagliaio fucile e valigie Una donna colono che si appresta con il marito al trasloco delle masserizie dall'insediamento di Peat Sadeh, trasporta con gli altri bagagli anche il fucile mitragliatore. Peat Sadeh, che ieri è già stato completamente sgomberato, aveva 110 abitanti ed era stato costruito nel 1989. Un colono dello stesso insediamento, ieri, dopo averterminato lo sgombero della sua casa, ha poi bruciato l'edificio da luì costruito cori le proprie mani «perché non cadesse - ha spiegato - nelle mani dei palestinesi». La vista della sua casa in fiamme, ha ammesso, è stata «terribile». Per compassione verso la moglie, ha acceso il rogo solo dopo che la donna si era allontanata. Il pianto sulla lapide Una coIona israeliana piange sulla lapide di un congiunto in uno degli insediamenti di Gush Katif, nel Sud della Striscia di Gaza, che devono essere abbandonati. Gush Katif e un blocco di diciassette insediamenti abitati da ultraortodossi e costruiti come sobborghi residenziali, tutti circondati da recinzioni e collegati tra di loro con strade. L'insieme è circondato dalle truppe israeliane con torri di guardia e carri armati. L'insediamento più grosso è quello di Neve Dekalim. Enclave ultraortodossa con 2671 abitanti, fondata nel 1983. Capoluogo amministrativo degli insediamenti di Gaza. Ospita il mausoleo eretto in memoria dello sgombero della penisola del Sinai nel 1982. 77 L'annuncio nel 2004 * * * Israele approvò il 20 febbraio scorso il piano di Sharon per il ritiro entro il 2005. Le colonie di Gaza, ex territorio egiziano occupato durante la guerra dei sei giorni nel 1967, si sono sviluppate dal 1980 con Sharon ministro degli insediamenti. Nel 1994 gli accordi di pace di Oslo avevano stabilito che la maggior parte dei territòrio della Striscia dovesse essere controllato dai palestinesi. Gli insediamenti si bloccarono, ma l'escalation della violenza a Gaza Impedì l'attuazione dell'accordo. Sharon annunciò la volontà di attuare il ritiro nel 2004. ^jm* ': ""STOP- eraTFiSr 11*4to'tuie. AIMO -THI E F» E IfckJ,»- Ì&. JFOFtBtrOOElSI- OY L-./VW! 11 O " M 15.8.05 ATigust 15, 2005 «Stop, divieto ci entrata e presenza a norma di legge» Allo scoccare della mezzanotte, le truppe israeliane hanno chiuso ogni accesso agli insediamenti di coloni ebrei nella striscia di Gaza: è la prima delle operazioni di sgombero forzoso degli ultimi coloni che non hanno ancora accettato di abbandonare volontariamente le loro abitazioni. Gli ultimi coloni rimasti e decisi a resistere all'ordine di sgombero avranno tempo fino a mercoledì, prima che i militari lì portino via fisicamente, a viva forza. «Questa è la chiusura definitiva della strada di Kissufim verso il territorio dì Gaza. Da questo momento, è fatto divieto per legge ai cittadini israeliani di entrareo dì restare nel territorio dì Gaza», ha annunciato la portavoce dell'esercito, maggiore Sharon Feìngold. ' n L'ammainabandiera dal tetto di casa Nell'insediamento di Nissanit un colono rimuove la bandiera israeliana dal tetto della casa che sta lasciando. Nissanit, 1064 abitanti, è la più grande di tre enclave a Gaza Nord. La maggior parte dei coloni se ne è andato. Le colonie del Nord, abitate prevalentemente da coloni «laici» e situate praticamente alla periferìa della città israeliana di Ashkelon, erano considerate non a rischio di scontri dagli analisti israeliani.