I romanzi non si leggono da soli, serve la mediazione del critico di Andrea Cortellessa

I romanzi non si leggono da soli, serve la mediazione del critico I romanzi non si leggono da soli, serve la mediazione del critico Andrea Cortellessa L «pappagallo di Humboldt, ultimo testimone della lingua di un popolo scomparso e che nessuno era più in grado di capire», è l'emblema che Mario Lavagetto ha scelto per il suo pamphlet Eutanasia della critica. All'infelice volatile appollaiato su qualche esotica arborescenza, ciarhero come sempre ma senza più nessuno che l'ascolti, e magari gli risponda, fa pensare lo spettro che turba i sonni di ima casta dal passato glorioso, dal presente assai meno tale, dal futuro quanto mai incerto: quella' dei critici letterari, appunto. Già, la critica: sempre più emarginata dai cataloghi editoriali, negletta dai lettori, snobbata da quell'altra casta alla quale nella sua epoca d'oro l'avevano legata rapporti, magari conflittuali, certo per entrambe proficui: quella degli scrittori. Dopo un secondo Novecento che era potuto apparire l'Epoca del Commento, gli inizi del nuovo secolo si mostrano impazienti con questa glassa di metadiscorsi, d'improvviso avvertita come soffocante. E Lavagetto punta il dito contro il Vangelo Oscuro col quale la critica, da più di un decennio, ha controfirmato la propria condanna a morte: Vere presenze di George Steiner, che teorizza l'utopia d'un rapporto coi testi /ade ad faciem, libero da incrostazioni accademiche e mediatiche, fatto di illuminazioni improvvise e drammatiche conversioni (fatto proprio con fanatismo, infatti, da legioni di spiritualisti pop). Vi si vagheggiava ima città che mettesse al bando i critici, e facesse spazio solo a scrittori e lettori. In pochi anni, scrive Lavagetto, da elegante paradosso controfattuale l'apologo s'è fatto sinistramente verosimile: «una città di morte, una specie di incubo elaborato alla fine del secondo millennio». Tutti, grazie ai quotidiani in edicola, si sono fatti una collezione di classici: ma nessuno sente il bisogno di accompagnarli con strumenti di lettura adeguati. Tuttavia «pensare che i testi parlino da soli, al di là e al di fuori di ogni possibile mediazione, è un'idea tanto vecchia quanto ingenua e intimamente balorda: disconosce la storia, disconosce la diversità dei codici e il modificarsi radicale, di secolo in secolo, degli orizzonti di attesa, delle domande che un testo produce e che al testo vengono poste». Quest'idea di testo è ben riconoscibile da chi ha seguito il percorso di Lavagetto, soprattutto nelle introduzioni-manifesto a due libri a più voci da lui curati, nel 1981 e nel 1996: Il testo moltipli¬ cato (Pratiche) e II testo: istruzioni per l'uso (Laterza). E che non differisce troppo dall'idea che di classico aveva Italo Calvino: un testo che non cessa mai di parlare, di volta in volta «dicendo» cose differenti. L'immagine che si può legare alla testualità non è dunque quella del cerchio, cara allo strutturalismo, bensì quella dell'ellisse (codificata da Bachimi, la quale prevede almeno due fuochi: la coscienza di chi ha scritto e quella di chi, di volta in volta, legge. (Proprio l'alta ma dissimulata temperatura «civile» di Calvino appare l'ètimo, anche stilistico, del Lavagetto inopinato quanto efficace pamphlettista; e ci si ricorda di un suo libro passato un po' troppo sotto silenzio: Dovuto a Calvino, appunto.) Rispetto a questo modello squisitamente teorico, però, qui Lava- getto appare acutamente consapevole di un terzo «fuoco»: quello del pubblico. Non a caso allude a un possibile èsito, per la critica: quello di prefigurare forme di conoscenza «dialogica» applicabiU a campi ancora più cruciah, e di vasto interesse, di quanto non sia quello della letteratura. L'allusione è, se non erro, a Romano Luperini: il quale ha a più riprese indicato quest'orizzonte, ispirandosi proprio al maestro di Lavagetto, Giacomo Debenedetti. Da ultimo in una raccolta di saggi che, come indica il titolo {La fine del postmoderno), solo in parte tocca il nostro problema. Ma un suo capitolo (anticipato l'anno scorso in un bel numero dedicato alla «Responsabilità della critica» da L'ospite ingrato, la rivista del Centro Studi Franco Fortini èdita da Quodlibet) mostra più d'una tangenza con quanto sostenuto da Lavagetto. Comune è l'idea che la critica sia una forma di «mediazione» e, dunque, atto eminentemente «sociale»: di conseguenza l'accento è posto, appunto, sul «rapporto a tre (interprete-testopubbhco)». Più deciso e «frontale», in Luperini, il corollario «politico» : per cui la critica, e l'insegnamento della letteratura a scuola, possono assumersi - col ricorso ai valori della dialogicità, appunto il compito di demistificare le contrapposizioni identitarie che stanno letteralmente bombardando il nostro presente, e riprendere - per dirla con Martha Nussbaum - a «coltivare l'umanità». Un altro critico che, con Lava- getto e Luperini, è stato di recente coinvolto da Paolo Di Stefano, sul Corriere della Sera, in una serie di dialoghi non privi di accenti polemici è Giulio Ferroni: il quale ha a sua volta raccolto alcuni suoi' saggi, nella stessa collana nella quale è uscito La fine del postmoderno, col titolo I confini della critica. Sul Corriere Ferroni ha rimproverato a Lavagetto (specie alla seconda parte deU'JSutanasia, che ripropone il ben noto metodo indiziario del suo autore) di proporre una critica che vuole «saperla più lunga» delle opere cui si applica, ma che non appare capace di «scommettere in grande sul senso dell'esperienza letteraria, del suo rappor¬ to col mondo». Proprio quest'ultima appare infatti la prospettiva del suo libro, tutto giocato in una dialettica costante fra assunzione tendenzialmente totale della cultura di un dato momento storico e la più acuta consapevolezza dei limiti ai quali è inevitabile sottoporsi, dei confini del campo letterario nel suo complesso e, al suo intemo, di quello della critica. (Non è un caso, viene da pensare, che a differenza di Ferrom e Luperini Lavagetto non coltivi l'hybris, giovesca e saturnina, della storiografia letteraria.) Oltre a Debenedetti (punto di riferimento, significativamente, di tutti e tre i nostri teorici e critici) un maestto viene indicato, da Ferroni, nel recentemente scomparso Paul Ricoeur di un' opera come La memoria, la storia, l'oblio: che indica una «prospettiva "escatologica" [.. .luna disposizione a cercare [...]un orizzonte di compimento». Un compimento che, in termini politici, appare proprio la cultura del dialogo alla quale guardano tanto Luperini che Lavagetto; ma che in Ricoeur ha, anche, un evidente sostrato religioso. La passione critica - da Ferrom definita infatti, sulle orme di Richard Rorty, «religione» (sia pur «laica, laicissima») - è quella di una «scommessa sul senso possibile del mondo». Ma colpisce come l'istanza di una critica come totalità sia definita dallo stesso Ferroni «pazzesca», e che Luperini perori il «vivere la critica come paradosso», «come scommessa e contraddizione». Quanto più il presente sembra voghe fare a meno della critica, insomma, tanto più il fame oggetto di pratica, e di culto, dovrà assomighare a un credo quia àbsurdum. Sino, chissà, a uscire dalle catacombe. D'altronde era solito dirlo con un sorriso, proprio Debenedetti: «Andate avanti e finirete col crederci». MA SE NON VUOL MORIRE LA CRITICA NON DEVE ESSERE UN «VANGELO OSCURO»: ALLE ILLUMINAZIONI DI UNO STEINER E' PREFERIBILE UNA CULTURA DEL DIALOGO ALLA RICOEUR Lavagetto, Luperini, Ferroni, tre studiosi di letteratura che hanno come comune punto di riferimento Giacomo Debenedetti, si interrogano sul perché sempre meno si senta il bisogno di adeguati strumenti e guide di analisi dei testi Il saggio di Lavagetto denuncia I' «Eutanasia della critica», sempre più emarginata dai cataloghi editoriali, negletta dai lettori, snobbata dagli scrittori Z/ ■^é^f iiP^1 Mario Lavagetto Eutanasia della critica Einaudi, pp. 96, G7 Giulio Ferroni I confini della critica Guida, pp. 158, G9,10 Romano Luperini La fine del postmoderno Guida, pp. 129, G8.20 SAGGI