Formiggini, tartufi e lambrusco prima del grande volo di Elena Loewenthal

Formiggini, tartufi e lambrusco prima del grande volo Formiggini, tartufi e lambrusco prima del grande volo Elena Loewenthal QUELLO di Angelo Fortunato (due nomi che il destino non ha certo scelto a caso, per quest'uomo...) Formiggini è uno di quei suicidi che Guido Morselli non avrebbe esitato a definire «autentico». Per lo scrittore, che si diede la morte alla fine di luglio del 1973, il vero suicidio è l'esercizio della scelta di morire. Chi la fa finita per disperazione, o semplicemente pur di non andare incontro a una morte peggiore e più dolorosa, non commette un vero suicidio. Angelo Fortunato Formiggini sceglie con cura anche il momento in cui suicidarsi: il 29 novembre. L'anno non poteva che essere il 1938, con le leggi razziali fresche di stampa. Prima di buttarsi giù dalla torre Ghirlandina di Modena, la sua città natale, compone di getto una sfilza di versi. Fra essi: «Crepare/ è il solo diritto/ che sia rispettato: /sarebbe peccato/ non ne approfittare». La vigilia, Formiggini prende il treno a Roma, dove abita da molti anni: ha un biglietto di sola andata. La sera, a Modena, si concede una cotoletta ai tartufi condita con lambrusco. L'indomani scrive una lettera alla moglie: «Finora è stato proprio come bere un uovo...», dice fra il resto. Un amico gli telefona per invitarlo a colazione: «No grazie, devo andare molto in alto». Per strada ne incontra un altro: «Salgo lassù per la scala: scenderò dall'esterno, sarà meno gravoso». Il nullaosta per la rimozione del cadavere indica «uno sconosciuto», anche se aveva portafoglio e documenti in tasca. Ma le leggi razziali proibivano di rendere pubblica la morte di un ebreo, e il suicidio di questo geniale editore fascista della prima ora era piuttosto scomodo. Passò infatti sotto un silenzio perfetto: non un trafiletto, un necrologio sui giornali. La morte di Formiggini fu resa nota solo nel 1945, dopo la liberazione. Che peccato per lui e il suo «suicidio doloso», gesto di protesta contro una solenne forma di idiozia. Di questa figura sono uscite in passato due brevi biografie (Nunzia Manicardi, Formiggini, l'editore ebreo che si suicidò (per restare italiano), Guaraldi nel 2001, Emesto Milano, .An^eZo Fortunato Formiggini, presso Luise di Rimini, nel 1987). Oggi Antonio Castronovo pubblica un nuovo, vivace itinerario nella vita e nella morte dell'editore: Libri da ridere, s'intitola beffardamente il suo omaggio. Formiggini aveva in effetti per l'umorismo una passione che neppure l'ultimo suo gesto con tutta la sua carica di premeditazione, ha spento: «Nel periodo della mia vita che dedicai agli studi, la sola cosa, forse, a cui volsi l'animo particolarmente attento fu il ridere, e mi parve che esso, oltre ad essere la più emergente caratteristica dell'umanità, è il più specifico elemento diagnostico del carattere degli individui, fors'anche il tessuto connettivo più tenace e il più attivo propulsore della simpatia umana». Veniva da una famiglia della borghesia ebraica modenese. Angelo Fortunato. Ma era per natura distante da ogni segregazione: era insomma tutto il contrario dell'uomo di ghetto. Si era laureato in legge nel 1901, con una tesi che si presenta come un «contributo storico giuridico a un riavvicinamento tra la razza ariana e la semita». Una mattina di qualche anno dopo, in una bella giornata di maggio si sveglia e si accorge di avere tutto come prima: mani, naso, «Pur essendo completamente diverso: non ero più uno studioso, ero diventato un editore». Comincia così la sua avventura fra i libri, che lo porterà a lasciare Modena prima per Genova e poi alla volta di Roma, la città di sua moglie. L'impresa editoriale si regge sui solidi beni di famiglia, e lascia il segno. Dai «profili», una collana di «affreschi sintetici» non per gli specialisti bensì per un pubblico medio curioso, alla «Casa del Ridere», una specie di biblioteca e museo di tutto ciò che è attinente, eccentrica collezione. E fra le sue collane: le Apologie e le Medaglie, le Polemiche e le Guide Radioliriche. Poi arriva il fascismo, i treni finalmente sono in orario. Ma la libertà si fa sempre più esangue. Ecco che cosa scrive Formiggini quando si accorge dell'aria che tira: «Il fascismo è una gran bella cosa vista dall'alto; ma visto standoci sotto fa un effetto tutto diverso. È come se tu guardi un'automobile standoci dentro seduto o se la guardi quando ti ha buttato a terra e ne senti sullo stomaco il grave peso che ti soffoca». Siamo nel 1923. Passeranno ancora quindici anni di delusioni, prima che arrivino le leggi razziali: sigillo del tradimento di cui quest'uomo brioso si sente vittima, come italiano prima ancora che come ebreo. Ci aveva provato fino all'ultimo, a protestare. Il 24 ottobre del 1938 scrive a Bottai, ministro per l'Educazione Nazionale, facendo presente «onorevolmente che, per lo meno da 309 anni, i Formiggini sono modenesi, cioè italiani 7 volte». Gettandosi dalla Ghirlandine, Angelo (senz'ali) Fortunato (poco), alias «l'editore meno noioso che io conosca» (Giulio Bertoni, 1933) dimostrò quanto era italiano. E lo fece usando quell'ironia alla quale da sempre il potere è allergico. Angelo Fortunato Formiggini, vittima delle leggi razziali

Persone citate: Angelo Fortunato, Antonio Castronovo, Bottai, Giulio Bertoni, Guaraldi, Guido Morselli, Nunzia Manicardi

Luoghi citati: Genova, Milano, Modena, Rimini, Roma