Tutto e Nulla o forse solo eroicomico di Andrea Cortellessa

Tutto e Nulla o forse solo eroicomico Tutto e Nulla o forse solo eroicomico Andrea Cortellessa NON v'è nulla che rievochi maggiormente il Nulla come il Tutto». Una frase come questa potrebbe averla detta l'oscuro Alonso Barrulho, che negh Anni Trenta strologa da ima certa città spagnola, dal passato favoloso e dalle coordinate ìmprecìsate. Perceber è la città della quale Barrulho dice, infatti (in un cartiglio recuperato, a Roma, quasi settant'annì dopo): «Ho capito che tutto ciò che mi circonda, adesso, non ha un nome: è un nome». La pillola dì gnosi non troppo vagamente borgesìana è una delle chiavi - così numerose da scoraggiarne l'uso - del «romanzo eroicomico» (così il settecentesco sottotitolo) col quale esordisce il trentacinquenne Leonardo Colombati. Il titolo è proprio il nome di quest'Anti-Roma immaginaria; la quale a sua volta si battezza da una storpiatura ìspano-germanìco-lusìtana del latino percìpere («assumere ì dati della realtà mediante i sensi» - si rinvia il lettore a p. 46 per l'oggetto-sineddoche della realtà). Effettivamente Tutto e Nulla stanno - nel mondo fittizio quanto in quello cartaceo che lo evoca - in un rapporto dialettico: di mutua causalità. Per questo la minuziosa rete dì rinvìi alla cosmologìa cabalìstica - sottesa al set dei diversi quartieri romani come all'ordinamento dì un simbolico Corpo Astrale -, a dispetto delle mani messe avanti in abbrivo («della struttura del nostro libro potrete agilmente disfarvi. La forma ci è servita per scrivere, non è indispensabile per leggere»), è tutt'altro che accessoria. Di fatto è ossessivamente ribadita, tanto dal doppio apparato di note (in coda al volume e - francamente di troppo - in calce a ciascun episodio) che dalle stemìane didascalie a ogni capìtolo. Nella cosmogonia ebraica, infatti. Dio dà luogo al Creato sottraendo spazio alla Propria Infinita Essenza: dalle sue emanazioni, le Sefiroth, discendono Tutte Le Cose. Possiamo far esperienza, insomma, solo dì un Meno, non dì un Più. A questa dialettica infinita alludono almeno due dei sotto-intrecci: quello della gamba amputata da un tram a un tipo di passaggio (e che un certo Complotto vorrebbe riappiccicargli, appunto, in parodia del Tìkkun cabalistico) e quello dell'onnisciente avvocato in pensione che matura il progetto di cartografare ogni minimo dettaglio di Roma (Piano degno dì Musil, impossibile per il noto paradosso dì Borges: quella mappa perfetta dovrebbe riprodurre anche se stessale se stessa dentro se stessa - all'infinito). Entrambe Metafore del Testo: il quale sì conclude, infatti, con l'intenzione dì «cominciare a scrivere». Quanto detto finora non è, non può essere, un riassunto della trama del libro. Il quale dì trame ne ha una quantità debordante - finendo, dunque, per non aveme alcuna (Tutto e Nulla, ancora). C'è chi ha scritto che così non sì fa un romanzo, bensì «un contenitore zeppo dì velleità e vanità pseudoculturalì». Col che diremmo addio a ITZisse, all'Uomo senzo qualità, al Mae¬ stro e Margherita e all'ArcobaZeno della gravità. Non che il libro dì Colombati abbia le doti di controllo - l'insolente virtuosismo - dì questi capolavori. La luciferina volontà dì riempire tutte le caselle del suo metafisico Gioco dell'Oca fa sì che l'autore, più volte, imbastisca episodi che sì rivelano al dì là delle sue forze, o che poco s'ingranano nell'economia complessiva del testo; ben altra penna richiederebbe, poi, l'emuìazione del pluristilìsmojoycìano. Tuttavìa l'ardimento dì un simile esordio va indubbiamente incoraggiato. Tanto per sottolineare l'ascendenza più discussa, è rimarchevole la fattura del calco da Pynchon. Non solo ì temi-tormentone (l'Antimondo o Zona, la Cartografia, l'Entropia) e la struttura a montaggio antilineare, che allude al pluriverso descritto (in un modo che Gabriele Frasca ha definito «tardoariostesco»), ma persino ì tic più idiomatici (dalle Maiuscole araldiche alle risibili Canzoncine), sono riprodotti con fanatismo genuino. E, ove appunto non si prescriva un ritomo al novel più tradizionale (come ha detto Colombati in un ragionevole intervento sullo stesso giornale che poi Iha stroncato), proprio il nuovo romance patafisico e macaronico dì Pynchon è conseguimento, fra i tardonovecenteschì, meno prescindibile dì altri. Col ritardo dovuto anche alle more delle traduzioni maggiori, l'enzima Pynchon ha del resto prodotto, da noi, più d'un risultato interessante. Se nessuno ha eguagliato il gradiente stilistico del pastiche di Tommaso Ottonìeri in Crema Acida (Lupetti e Marini 1996), quète con protagonista «Nunzia Orfica Di Vaj'n» (omaggio alla Oedipa Maas dell' Incanto del lotto 49), vi ha lasciato tracce in Occidente per principianti dì Nicola Lagioia (Einaudi 2004) nonché, prima e a più alta saturazione, nel trascurato quanto notevole La Verità Vadovunque di Roberto Moroni (Baldini Castoldi Dalai 2000); e ora La ragazza che non era lei, l'ultimo romanzo di Tommaso Pìncìo (un nome che è un omaggio a priori), per molti versi si rivela come un allusivo controcanto a Vineland - il più «polìtico», ed emotivo, dei libri di Pynchon. Proprio Vineland (leggo in un suo saggio pubblicato su Nuovi argomenti) non piace a Colombari. Non stupisce scoprire, allora, che il suo fratemo sponsor Alessandro Pipemo riscontri in luì la propria medesima «difficoltà a indignarsi» (mentre proprio un'accorata protesta è quella che, dì là da tutte le maschere, risuona in ogni libro di Pynchon). Nel risvolto dì Perceber, Pipemo rassicura il lettore come allo «stile [...Sofisticato fino al virtuosismo» faccia da contrappeso «un realismo sconcertante». Quale esempio di questo «realismo» esoreisticamente evocato addurrei la scena clou del libro: un Volgare Ristoratore che, scoperto in «Orribile Carriola» con certa Steatopigìa Dipendente, issofatto vien punito da un granchio balzato fuori dal suo acquario: una Grancevola che, saldamente abbrancata l'Arma dell'Adulterino Dehtto, attacca a rimproverarle, cantarellando salaci couplefs, tutte le sue Colpe. Realismo, come ognun vede, della più bell'acqua. Ecco: un bel passo avanti sarebbe se gli Scrittori Lodevolmente Ambiziosi si vergognassero meno di quel che fanno. O Provano A Fare. «Perceber», l'esordio di Leonardo Colombati, quale ascendenza Pinchon: non solo i temi-tormentone (l'Antimondo o Zona, la Cartografia, l'Entropia) e la struttura a montaggio antilineare, ma persino i tic più idiomatici sono riprodotti con fanatismo genuino Il romanzo di Colombati rievoca una immaginaria città, Perceber, descritta come un'anti-Roma A destra: una visione della via Appia di Piranesi Leonardo Colombati Perceber Romanzo eroicomico Sironi, pp. 511,^.17 ROMANZO

Luoghi citati: Crema, Roma