Mezzo secolo con «il verri»: a narrativa come avventura di Andrea Cortellessa

Mezzo secolo con «il verri»: a narrativa come avventura Mezzo secolo con «il verri»: a narrativa come avventura Andrea Cortellessa L verri» la storica testata di Luciano Anceschi da dieci anni rinnovata nella grafica e neba distribuzione (Monogramma, ilverri@tiscali.it), raggiunge il suo cinquantesimo anno (nel 1956 il primo numero) rinnovando il suo organico redazionale (attualmente composto dal figlio del fondatore Giovanni Anceschi, da Gabriele Frasca, Milh Graffi, Giubano Gramigna, Maria Antonietta Grignani e Niva Lorenzini, oltre che dal sottoscritto), mentre Umberto Eco, Paolo Fabbri, Alfredo Giubani, Tomàs Maldonado, Edoardo Sanguineti e Aldo Tagliaferri tuttora siedono nel consigho di direzione. Dopo numeri innovativi come il 25 sulla poesia sonora (accompagnato da un ed curato da Gianni Fontana), il verri prosegue il suo percorso col numero 28 (in questi giorni nelle Librerie Feltrinelli). E lo fa tornando abe origini. Sulla rivista, fra fine Armi Cinquanta e inizio Sessanta, la critica militante s'affiancò combattiva agb appuntiti saggi di ricerca e agb stimolanti recuperi «storici» (e per la verità lo sguardo sul passato fu sempre, per Anceschi, uno sguardo «mibtante»). Nella poesia, per esempio, la febbrile inquietudine del giovane Alfredo Giubani fu - in quegb anni cruciab - il vero bacino di coltura della storica antologia dei Novissimi e poi del Gruppo 63. Non è certo tempo, il nostro. di nuove avanguardie. Le quab abbisognano di un certo grado d'ebolbzione della storia (noi che riceviamo la quabtà dai tempi, scriveva il Sanguineti di Laborintus). Il nostro, piuttosto che quello d'una fervida ebolbzione, pare uno stato decotto. Diciamo pure scotto. Specie nella narrativa: che l'industria cerca di tener su a forza di polemiche gonfiate quanto vacue, di contenuti. Il verri non crede certo di poter capovolgere questa situazione. Ma fortemente crede cbe uno spazio per la narrativa permanga. Per una narrativa non formattata, non sagomata secondo stampi precostruiti. Una narrativa che sia sempre un'avventura (e non banalmente d'avventura, come pretendono certi petulanti cultori dei «generi»). Crede soprattutto, il verri, che il Novecento - con tutte le sue tragedie - non sia passato invano. Uno spirito magno del secolo scorso, che ci ha lasciati poco dopo che il nuovo ha fatto i suoi non promettenti primi passi, Maurice Blanchot, ci regala il titolo della nostra scommessa: Il libro a venire, come lo straordinario libro di saggi del 1959, tradotto qualche anno dopo per Einaudi da Guido Ceronetti e Guido Neri. E che Einaudi forse non a caso, date la gran parte delle sue ultime scelte narrative - non ristampa da decenni. Seguendo la traccia del'Lihro a venire abbiamo abora chiesto a un certo numero di nairatori, negh ultimi armi segnalatisi fra i più interessanti e innovativi, di offrirci il lóro non ancora - la loro ipotesi di sé. Non frammenti da libri compiuti ma cebule di organismi in divenire. Ne sortiscono autentiche sorprese, a partire da un narratore che fa il suo esordio in prosa aba bella età di settantotto anni: Eho Pagliarani, uno dei maggiori poeti del Novecento (e certo il maggior narratore in versi), ci offre in assoluto il primo lacerto del suo Promemoria a Liarosa, autobiografia e romanzo di'formazione cui lavora da quasi trent'anni. (Ed è proprio un suo curioso incidente di percorso, fra Pasobni e il verri prima maniera, a essere narrato in queste pagine). Arduo sarebbe costringere queste scritture nelle grigbe della narrativa tradizionale. I testi in prima persona di Walter Siti e Marosia Castaldi ci mostrano quanto ci s'inganni a contrapporre narrativa d'invenzione e scrit¬ tura di sé. Se ogni invenzione reca l'impronta di chi la partorisce (sempre riconoscibilissimo, per esempio, l'inventare «gotico» e affabulatorio di Michele Mari), altrettanto evidente è la reciproca: cbe ogni confessione dissimula chi si confessa. Castaldi compie una decisa sterzata dalla maniera figurale e visionaria di libri come Per quante vite e Dava fine alla tremenda notte, mentre Siti percorre (dall'esordio di Scuola di nudo) una linea di sempre maggiore trasparenza linguistica ma sempre più complessa «sperimentalità deU'io». Non mancano generi del discorso con funzioni diverse dalla narrazione. È il caso del baedeker parodico scritto a quattro mani da Paolo Nori e Daniele Benati, o debe ekphrasis artistiche di Giuba Niccolai. Ma si dirà, poi, che nuba abbiano a che fare con la narrativa gb apologhi di Beppe Sebaste, le «istantanee» per il teatro di Anna Ruchat, lo stralunato torrente invettivale di Ugo Comia, gb «aforismi» di Franco Anninio. Proprio per Arminio (una debe più sorprendenti epifanie stilistiche degb ultimi anni è il suo Viaggio nel cratere, edito un paio d'anni fa da Giubo Mozzi per Sironi) assai pronunciate virgolette incorniciano il «genere»: se deb'aforisma è la cadenza sapienziale prima che ritmica, le «forme brevi» di Arminio sono agb antipodi: per la provocatoria inconcludenza, lo svicolare diagonale debo sguardo. Qualcosa di simile avviene, pervertendob sino a renderle irriconoscibib, a «racconti» (come l'instabazione in prosa di Laura Pugno, altro sorprendente esordio con lo Sleepwalking sempre di Sironi; o l'irrefrenabile bevitare comico di Ennanno Cavazzoni) o «sezioni di romanzo» (l'angolo di labirinto di Tommaso Ottonieri, lo scoppiettante travestimento di Giordano Meacci); per non parlare di chi non sa ancora quale strada il suo testo prenderà (Leonardo Pica Ciamarra; il cui Ad avere occhi per vedere, edito tre anni fa da minimum fax, è a mio parere il più sostanzioso esordio in prosa deb'ultimo periodo). Conclude una conversazione con Gabriele Frasca sulla sua recente, formidabile opera saggistica dedicata proprio aba narrativa. La lettera che muore. Aveva proprio ragione, Blanchot, quando affermava che «la forma romanzesca [...]non vive, forse, cbe debe sue alterazioni». Finché si continueranno a leggere testi come questi, non si salderà del tutto l'imperio deba romanzeria formattata, del narrare pret à porter. Come diceva lui (nel '591), «il predominio del romanzo, con le sue apparenti libertà, le sue audacie che non metteranno il genere a repentagho [...]è [...Jespressione del nostro bisogno di proteggerci contro ciò che rende pericolosa la letteratura». E invece si scrive ancora. Si narra ancora. E non lo si può fare se non affrontando il sericolo - pericolo mortale, per a pigrizia debe nostre abitudini mentali, percettive e affettive che la letteratura, quand'è tale, non può non costituire. Se è vero che - per citarlo un'ultima volta, Blanchot - «si racconta quel che non si può riferire. Si racconta quel che è troppo reale per non distruggere le condizioni deba realtà misurata in cui siamo». Sulla rivista bolognese alcuni fra gli scrittori più innovativi, da Pagliarani a Siti, Cavazzoni e Arminio, offrono un'«ipotesi di sé» Luciano Anceschi fondatore nel 1956 della rivista «il verri» che ora festeggia il suo mezzo secolo con una nuova redazione e nuovi percorsi tematici mm*: f a. V-' Il libro a venire il verri, n.28, maggio 2005 Monogramma pp. 160,213,50 RIVISTA