Allo zio coso non piacciono gli smemorati di Elena Loewenthal
Allo zio coso non piacciono gli smemorati TERRE PROMESSE Allo zio coso non piacciono gli smemorati Elena Loewenthal ■"f uno di quei tormam mentoni che abitano nell'infanzia, mmm che i bambini non si stancano mai di ascoltare, lasciando che sgorghi la risata più scomposta. Incomincia con un impassibile «la macchina del capo ha un buco nella gomma», prosegue con una breve teoria di contrattempi, ma già dopo il primo ritornello una parola o due spariscono lasciando il posto a un suono, a una strampalata onomatopea. Con un poco di voce e di pazienza, la canzoncina finisce per diventare ima sequenza di brum e pss, alla faccia delle parole. Il romanzo di Alessandro Schwed è un po' così: s'intitola Lo zio coso, e quel 'coso" è anch'esso una specie di onomatopea perché lui, il coso narrante, si perde per strada nomi e parole proprio come la macchina del capo. «Non sarà certo un piccolo problema di decine e decine di parole che spariscono a un tratto dalla mia memoria, a bloccare la lettura. Sono incidenti mentali che vanno e cosano». E' un libro, questo, che corre sul filo della smemoratezza. A qualcuno, spariscono le parole di mente come se niente fosse, qualcun altro sostiene che la seconda guerra mondiale è come se niente fosse, anzi è niente perché non è mai successa: gli eserciti in uniforme che scorrazzavano per l'Europa erano sfilate di moda, bubbole le lagne degli ebrei che contandosi non si sono più ritrovati, alla fine della presunta tragedia. Il coso narrante incontra il coso negazionista durante un viaggio in treno per l'Ungheria ed è in fondo grazie alla sua bizzarra visione della storia (anzi, della non storia) che prende il coraggio a quattro mani, manda all'aria le parole che prendono il volo, e decide di scrivere la propria, di storia. Quella della sua famiglia in bilico fra Ungheria, Toscana, Roma e Israele, e quella dello zio Coso. «Un caso irripetibile di patriarca ciondolone, con un'aria mite dà oracolo in vacanza». Alessandro Schwed è Giga Melik, firma storica della satira italiana. Dopo tante cose siglate con lo pseudonimo, ha deciso di usare il nome vero per questo romanzo. Che è un'epopea buffa e a volte strug;ente, densa di pagine irresistijili e di altre che fa male anche solo a leggerle. Non è difficile intravedere in questa prosa, e nell'idea che soggiace, quasi un topos della letteratura ebraica contemporanea. Il coso narrante, per intenderci, ha in filigrana la stessa distrazione dalla vita de La versione di Bamey, dove tutto comincia e finisce con parole che si perdono nel vuoto. Eppure ciò nulla toglie all'originalità del racconto di Schwed. La smemoratezza è infatti, un po' come la canzoncina con la macchina del capo, un tormentone dell'esperienza ebraica. La tradizione d'Israele si fonda sul ricordo, mentre l'oblio è minaccia e incubo. A volte diventa un'utopia: sarebbe bello, ogni tanto, potersi permettere il lusso di dimenticare. Ma non parole, come quelle che sfumano nel racconto di Schwed: qualcosa di più consistente delle parole, come dolori e assenze, ingiustizie e frustrazioni. Dimenticare è un po' suonare il pianoforte, per gli ebrei. Molto meglio fare pratica sul violino, perché avete mai provato a scappare a gambe levate con un pianoforte sulle spalle? In questo senso, il romanzo di Schwed, al di là del divertimento della lettura, tocca un tasto delicato, quasi ima fobia. E lo fa con grazia e con spirito, con partecipazione emotiva e profondità spensierata. Alessandro Schwed * Lo zio coso Ponte alle Grazie pp. 264, 2 13 ROMANZO
Persone citate: Alessandro Schwed, Giga Melik, Schwed
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