«Sono gli Usa i cattivi maestri» di Carla Reschia

«Sono gli Usa i cattivi maestri» IL RAPPORTO DI AMNESTY CONDANNA LA POLITICA STATUNITENSE «Sono gli Usa i cattivi maestri» «Nel nome della libertà violano 1 diritti umani» Carla Reschia ROMA Da A come Afghanistan a U come Usa. L'elenco dei «cattivi» di Amnesty è lungo quasi come quello dei Paesi esaminati nel rapporto annuale, pubblicato ieri. Tra i 194 monitorati in un centinaio la tortura non è scandalo ma routine e una settantina non conosce libertà di stampa né di parola. Le donne sono state «protagoniste» di stupri e abusi in 13 conflitti e la guerra al terrore agisce efficacemente anche come deterrente per il rispetto dei diritti umani. In 37 Paesi si finisce in carcere così, semphcemente uscendo di casa, senza accusa o processo, in 10 si sparisce in centri di detenzione segreti e in 32 pensare è un reato da galera. Poi ci sono la pena di morte - applicata in 51 nazioni - e la violazione dei diritti dei profughi e dei rifugiati, messa sistematicamente in atto da 36 Paesi. Chi da questi dati traesse spunto per ergersi a difensore dei diritti umani consideri che non è mestiere tranquillo: 26 governi hanno sottoposto gh attivisti a limitazioni legali, minacce e intimidazioni; 17 li hanno arrestati; 16 h hanno attaccati fisicamente, a volte per mano di gruppi armati compiacenti, altre direttamente. Ma fra i tanti trasgressori, sono gli Usa, secondo u severo giudizio di Amnesty, ad avere la maggiore responsabilità perché la loro volontà di ergersi a esempio planetario li rende, nel bene e nel male, paradigmatici. Ovvero: «quando il Paese più potente del mondo si fa beffe del primato della legge e dei diritti umani concede agh altri Paesi la licenza per compiere abusi impunemente». Le vicende diAbu Ghraib, con le loro oscene foto-ricordo e i processi farsa, il rifiuto americano di applicare le convenzioni di Ginevra ai prigionieri di Guantanamo, le loro stesse condizioni di detenzione, sono ovviamente gh «highlight». Ma nel conto finisce ancnela guerra al terrore con i suoi finora non esaltanti risultati, in quello che diventa di fatto un pesante giudizio politico. Secondo l'associazione sono gh Stati Uniti a dettare «la nuova, pericolosa agenda dei governi in cui il linguaggio della libertà e della giustizia viene usato per portare avanti pohtiche di paura e insicurezza». Per nulla, oltretutto: «Quattro anni dopo l'il settembre la promessa di rendere il mondo un luogo più sicuro rimane vana». Nonostante le decapitazioni degh ostaggi in Iraq, il sequestro di migliaia di persone tra cui centinaia di bambini nella scuola di Beslan e il massacro di centinaia di pendolari a Madrid, incalza Amnesty, i leader del mondo «non hanno voluto ammettere la mancanza di successo nella lotta al terrorismo, perseguendo strategie fallimentari ma politicamente convenienti». Un escalation a cui i terroristi rispondono alzando il tiro, in una spirale di violenza che si autoah- menta. E che stende una rete di nequizie mondiale in cui vittime e carnefici finiscono per assomigliarsi un po'. Ce n'è per tutti, nel rapporto. Per Israele, che insiste nella costruzione di «un muro che accerchia e isola città e vihaggi palestinesi, nonostante la sentenza contraria della Corte intemazionale di giustizia» e che paga, forse, la trasparenza dei suoi atti; per la stessa Unione europea, che «ha mostrato mancanza di volontà pohtica nell'afìrontare le violazioni dei diritti umani all'interno dei propri confini» e toUera centri di accoglienza ben poco ospitali. In Asia spicca il caso dell'Uzbekistan recentemente emerso dall'oblio, dove «il govemo ha incarcerato centinaia di individui ritenuti musulmani e accusati di essere collegati al terrorismo mentre le forze di sicurezza federali hanno continuato a godere a tutti gh effetti deU'impunità per le violazioni commesse in Cecenia». Ma è in buona compagnia. La situazione della Cina, secondo Amnesty, è talmente seria da meritare un capitolo a sé, greve di accuse. E la condizione femminile nell'estremo Est spazia dalle aggressioni con l'acido in Bangladesh agh stupri dei soldati in Nepal. Non si salva nemmeno l'Australia, che nasconde inferni domestici di botte e maltrattamenti e dove le percosse in casa sono la causa principale di morti premature e di disturbi di salute per le donne tra i 15 e i 44 anni. E i Paesi «liberati» dall'Occidente? In Afghanistan (da paura di essere sequestrate da gruppi armati obbliga le donne a ridurre i movimenti fuori di casa», mentre in famiglia poco è mutato dopo i famigerati taleban. In Iraq la violenza ormai è «endemica». In cambio non va bene neppure dove si lascia correre: nel Darfur, ad Haiti, nella Repubblica democratica del Congo orientale, nello Zimbabwe. E l'elenco potrebbe continuare. A tutto questo si contribuisce gettando legna sul fuoco, ovvero vendendo armi; «La mancanza di una regolamentazione del loro commercio - ha denunciato il neo presidente di Amnesty Italia, Paolo Pobbiati - porta ogni anno 8 milioni di armi leggere nelle mani di eserciti regolari o irregolari, Tniligiani, gruppi armati o civili». PRIGIONIERO DI COSCIENZA Insiemea quello, simile, del sergente Camilo Mejia Casti I lo, il caso del sergente statunitense Abdullah William Webster è stato eletto da Amnesy a emblema. A giugno, il sergente Abdullah William Webster (nella foto con il figlio), in servizio presso l'esercito dal 1985, estate condannato a 14 mesi di reclusione e alla perdita della paga e delle indennità per essersi rifiutato di partecipare al conflitto in Iraq a causa del suo credo religioso. Webster aveva ricevuto l'ordine di recarsi in Iraq nonostante avesse presentato una richiesta per essere rassegnato a incarichi che non prevedessero il servizio attivo. La sua domanda per ottenere lo status di obiettore di coscienza è stata rifiutata in quanto la sua opposizione sa refabe stata rivolta a un conflitto specifico e non alla guerra in generale.

Persone citate: Abdullah William Webster, Camilo Mejia, Paolo Pobbiati, Webster