Buoni e cattivi, l'italia dei rancori irrisolti di Mattia Feltri

Buoni e cattivi, l'italia dei rancori irrisolti i TRIBUNALI NON SERVONO AD EROGARE PENE MA A CERTIFICARE CHI HA RAGIONE E CHI TORTO Buoni e cattivi, l'italia dei rancori irrisolti Dal 25 Aprile alle stragi: la via giudiziaria alla storiografia analisi Mattia Feltri ROMA Lf IMPRESSIONE che piazza i Fontana si trascini dietro non soltanto una dolorosa vicenda umana e giudiziaria diciassette morti e nessun responsabile - ma soprattutto i rancori irrisolti degli Anni Settanta, è di nuovo particolarmente forte. Sono rancori figli dell'eterna domanda italiana: chi sono i buoni? E chi i cattivi? Chi cominciò e chi si limitò a reagire, magari con qualche eccesso, ma opponendo la violenza alla violenza? Non è in fondo dissimile la qualità del dibattito riacceso a ogni 25 aprile, coi libri e i giornali, nella piazze e fino nelle curve degli stadi. La guerra di Liberazione (o guerra civile), gli Anni di piombo, il confuso e poco eroico passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica sono eventi intomo ai quali non c'è «memoria condivisa» e che alimentano una disputa senza confini e talvolta oziosa. Il commento alla sentenza della Cassazione - assolti tutti gli imputati - dell'ex pm milanese Gerardo D'Ambrosio è energico e indicativo: «La verità storica è stata accertata: alcuni settori dello Stato servizi segreti, vertici militari e alcuni uomini politici - pianificarono l'uso di terroristi di estrema destra per frenare l'avanzata della sinistra». Non meno interessante è il pensiero di Gaetano Pecorella, avvocato e oggi parlamentare di Forza Italia: «Purtroppo accade che ci si innamori di una tesi e si tenga un atteggiamento negativo su qualcuno magari per il suo passato e la sua ideologia». Quello concluso l'altro ieri è un processo, un contraddittorio sulle carte e sulle testimonianze per stabilire se gli accusati abbiano commesso o meno il crimine, ma è difficile distinguere la polemica puramente giuridica dal resto. E intanto tutti - D'Ambrosio, «L'Unità» («Giustizia capovolta» è l'editoriale del direttore Antonio Padellaro), «il manifesto» («Non è successo niente» è il titolo di ieri), i sindacati («sdegpo profondo» dalla Cgil), partiti d'opposizione («un'ombra indelebile e minacciosa sulla nostra storia e sulla nostra democrazia» per lo Sdi, «vergogna» per i Verdi, «riaprire il caso» per i Comunisti italiani) - smantellano la sciocca regola secondo la quale «le sentenze non si discutono». Si discutono invece, e si criticano. E attraverso le sentenze si criticano e si condanna¬ no lo Stato e la magistratura, e se non ci fossimo abituati sarebbe devastante che la dannazione provenga da un ex magistrato ed ex servitore dello Stato, D'Ambrosio appunto, arrivato al vertice della carriera gestendo una procura importante come quella milanese. Il grado supremo di giudizio gli ha dato torto, ma per lui rimane inappellabile la verità storica emersa da trentasei anni di indagini e dibattimenti. D'Ambrosio ha diritto di pensarla così. E del resto quanti processi sono stati archiviati nello stesso modo e con le stesse reazioni? Quante volte i grandi malvagi non sono stati dichia¬ rati tali in nome del popolo italiano, eppure attraverso la loro inquisizione è stato messo il sigillo sulla storia della Repubblica? Così Giulio Andreotti non è punibile per mafia, ma la via giudiziaria alla storiografia non lascia dubitare che la Piovra e la Democrazia cristiana abbiano contratto un matrimonio d'affari. E nemmeno è dubitabile che, malgrado sia uscito indenne dalle camere di consiglio, il percorso politico e imprenditoriale di Silvio Berlusconi sia il giro d'Italia della fraudolenza. I tribunali non servono più per erogare pene, ma per dividere i buoni dai cattivi, dov'erano gli stragisti, chi li comandava, chi usurpò il potere col sangue e la corruzione. E, più o meno allo stesso modo, portare alla sbarra il boia delle Ardeatine oltre cinquant'anni dopo l'eccidio non ha tanto il sapore dell'obbligatorietà dell'azione penale, quanto dell'urgenza di certificare chi avesse tutta la ragione e chi tutto il torto. E' un esercizio con una dignità, ma contestabile. Ottimo per le intricate sceneggiature del cinema di denuncia. ottimo per la sterminata produzione letteraria del mistero. Ottimo per confermare il diritto sacrosanto, anche per un magistrato, di avere opinioni politiche e di dare alla storia una lettura diversa. Ma che cosa ha da guadagnarci in prestigio la magistratura? Che cosa, se il lavoro istituzionale di uno come D'Ambrosio (e tanti altri giudici) rischia di non distinguersi più da quello sanguigno di Michael Moore o di Marco Paolini? Che cosa, se trentasei anni sono stati utili soltanto per avvalorare l'idea una semplice idea - già così ampiamente sostenuta da un qualsiasi titolo delle «edizioni Kaos»? C'erano degli imputati. Le prove a loro carico sono state giudicate insufficienti e sono stati assolti. Se questo è avvenuto per le devianze dei servizi segreti - come dice D'Ambrosio - oppure per la testardaggine anche ideologica di chi indagava - come dice Pecorella - interessa moltissimo ai produttori di articoli, di libri e di film. Per gli amministratori della giustizia è soltanto una sconfitta: i colpevoli restano nascosti dentro un castello di suggestioni. Manca una «memoria condivisa» ed è difficile distinguere la polemica giuridica dal resto Ma per gli amministratori del diritto è soltanto un insuccesso: i colpevoli restano nascosti dentro un castello di suggestioni Gli anni di piombo: scontri a Milano nella primavera del '79

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