TERMINATRICI di Gianluca Nicoletti

TERMINATRICISOPRAVVIVE IN SARDEGNALAMEMQRiA DELIE PROFESSiONI! UfttA SORTA EUTANASIA TERMINATRIIC Le donne in nero che portavano la morte reportage Gianluca Nicoletti LA porta si apre e il moribondo dal suo letto d'agonia vede entrare la femmina accabadora. Lei è «l'accoppatrice», tanto per rendere comprensibile il termine. È vestita di nero e una delle sue gonne è sollevata a coprirle il viso. E' arrivata l'ora. Lui da quel momento sa che l'abbraccio che avrà da quella donna sarà l'ultimo della sua vita. C'è un tempo remoto, che sopravvive nelle memorie anche recenti degli abitanti della Sardegna, in cui tutto questo è assolutamente plausibile. Ad inseguire il filo delle prove documentali o a sviscerare le etimologie c'è da diventar matti. Accabadora dallo spagnolo acabar, terminare 0 ancor più dal sardo accabaddare può significare incrociare le mani al morto, 0 ancora mettere a cavallo e quindi far partire. Guai a chi, con esili competenze di antropologia imparaticela, si avventura, come me, nei misteri millenari della Sardegna. Qui ogni storia, diceria, formula magica, canzone o parola, si muta e viene interpretata diversamente spostandosi anche solo di cento metri. Dirò solamente che nessuno mi ha negato di aver sentito parlare di ima professionista della morte. Una donna capace di risolvere i casi disperati, soffocando, strangolando, spaccando il cranio o l'osso del collo, a seconda delle latitudini ove operasse. Alessandro Bucarelli, medico legale e antropologo criminale dell' Università di Sassari ha studiato molto e scritto altrettanto sulle accabadoras. A modo loro queste donne conoscevano perfettamente l'anatomia umana, erano «praticas», levatrici curatrici e anche capaci di uccidere con metodo e precisione: «Ne parlano ovunque, non può essere un mito, una fantasia dovuta all'isolamento. Gli ultimi episodi certificati che si conoscono sono due. Uno a Luras nel 1929 e uno Oi-gosolo nel 1952. A Luras, in Gallura, l'ostetrica del paese accabbò un uomo di 70 anni. La donna però non fu condannata, il caso fu archiviato. I carabinieri, il Procuratore del Regno di Tempio Pausania e la Chiesa furono concordi che si trattò di un gesto umanitario». Oltre i casi documentati, moltissimi sono quelli affidati alla trasmissione orale e alle memorie di famiglia. Molti ricordano un nonno o bisnonno che comunque ha avuto a che fare con la vecchia nerovestita, tra i meno vecchi c'è chi come Egidiangela Sechi ha voluto approfondire sul campo. Ha dedicato ima parte della propria tesi di laurea sull'eutanasia a mezzo di un giogo da buoi, questa pare fosse pratica usuale a Sindia, suo paese natale nel Nuorese: «Avevo preparato un questionario sui rituali legati alla morte e l'avevo sottoposto a decine di donne anziane del posto, poiè saltata fuori la storia del giogo e ho dovuto ricominciare da capo inserendo una nuova domanda sulle accabadoras, tutte sapevano, ma non me ne avevano parlato semplicemente perché non glielo avevo chiesto». Difficile rintracciare segni di una discendenza dalla stirpe delle tenninatrici in Egidiangela: una Monica Bellucci intagliata nella carne dell'isola, che oggi conduce il tg di Videolina. Con grazia e levità comunque mi istilla il dubbio che al suo paese, attraverso il giustificativo di un rito purificatore, in passato fosse facile che al moribondo si desse anche un aiutino più concreto per passar a miglior vita. L'appuntamento con l'esperto di queste cose è davanti alla chiesa. Mi basta scambiare le prime parole con Michelangelo del Rio, il sacrestano del defunto parroco di Sindia, per capire che da quelle parti la morte è ancora profondamente intrisa con il quotidiano. Noi metropolitani, rifletto, ci liberiamo di ogni pensiero oltre la vita in quelle discariche di rifiuti umani a perdere che sono le moderne periferie-cimitero. Indifferenti agglomerati che sono identici alle periferie di ancora viventi. A Sindia, al contrario, fino agli Anni 80 era possibile affittare prefiche professioniste specializzate in lamentazioni funebri a soggetto. Le «attittadoras» nutrivano il morto in partenza con le loro lacrime. Erano «allattatrici» perché solo chi sa dare la tetta a un bimbo per nutrirlo, è capace della dolcezza estrema di un trapasso assistito. Ancora mi si racconta di teschi sottratti al vecchio cimitero per seppellirli all'entrata dell'ovile, maniera efficace per fermare la moria del bestiame: «poi comunque lo rimettevano al posto suo». Mi si spiega come si apparecchia la tavola per la cena ai propri defunti tra il primo e il due novembre, quando le campane suonano a morto per tutta la notte senza fermarsi mai. Io voglio saper delle accabadoras. Il sacrestano la prende alla lai^a, poi finalmente dopo un lungo giro tra magia e folldore, ci arriva. Si va in cantina e finalmente saltano fuori due esemplari di «ghiaie». Il giogo che Egidiangela mi aveva descritto come elemento clou dei suoi studi. Era considerato un oggetto quasi sacro, chi lo rubava veniva giudicato peggio che un omicida, aveva tolto a una famiglia il più importante strumento di lavoro. Chi aveva una lunga agonia si pensava in crisi di coscienza per quel tipo di delitto e quindi per farlo finalmente morire in pace occorreva passare un giogo sul suo corpo. Poco dopo il rito pare che se ne andasse sereno. Michelangelo non si fa più pregare: «L'ultimo su ghiaie è stato fatto a un uomo che conoscevo bene negli Anni 80, lo avevano trovato ferito in campagna, l'avevano vegliato per otto notti in agonia, fino a die qualcuno disse che se non moriva forse aveva rubato un giogo...». Il rituale chi lo sa non lo dice, poi non ne parlano volentieri, hanno paura, ma il giogo sterminatore incombe nelle dicerie del paese: «Noi si sa che il giogo che sta in tale casa è stato messo a quella tal persona. Porta il nome di chi ha accompagnato alla morte». La malizia dell'interesse per un'eredità ha il sopravvento sulla sacralità di questa tradizione, ammessa e rinnegata allo stesso tempo, in un episodio di eutanasia interessata che qui tutti conoscono: «Una quarantina d'anni fa in una casa non lontana da qui era arrivato un ospite - racconta ancora Michelangelo sotto il ritratto di un abate servo di Dio al centro del suo salottino mistico -. Era un signore della provincia di Sassari, compare d'olio santo di un nostro paesano. Aveva un carro, una casetta, stava bene, non era nemmeno vecchio, ho trovato il suo atto di morte nell'archivio parrocchiale. Non era loro parente, ma aveva tenuto un figlio a cresima. Arriva qui che era già moribondo. Poco dopo in tutto il paese sa che è morto, si chiamava Ziu Flore. Suonarono le campane a morto e l'avevano composto sul tavolo all'ingresso di casa, ma i bambini si accorgono che respirava ancora. Viene il medico condotto accende un fiammifero sotto le narici, respirava davvero! Il dottore lo fa riportare a letto e sgrida la famigha, chiede se sono impazziti quello è ancora vivo. La padrona di casa però aveva una sorella che cacciava i denti, faceva la levatrice e... le altre cose. Dopo una mezz'ora le campane suonarono nuovamente a morto. Questa volta, dopo il passaggio dell'accabadora si era sicuri che non avrebbe più respirato». Michelagelo muove i due gioghi di famigha, mi spiega il rituale; al malato veniva passato il giogo lentamente sulle gambe, sul petto, si recitavano le formule che dovevano alleviare la sua coscienza dal fardello pesante del giogo rubato che gli impediva di morire in pace. Alla fine gli veniva sollevato il capo e il giogo gli veniva passato dietro alla nuca da due assistenti che lo reggevano agli estremi. Pare che, finalmente rappacificato con gli antichi codici, la vittima morisse di li a poco. Certo che nella simulazione è sin troppo chiaro che, in quella circostanza e su una persona già soffrente e debole, un colpo ben assestato di quella trave sagomata, di legno massiccio e ben pesante, su una vertebra del collo sarebbe scuramente da considerarsi fatale. Ora siamo in Gallura, Pier Giacomo Pala direttore del museo etnografico di Luras ha impiegato 12 anni per ritrovare l'unico esemplare di «su mazzolu», l'attrezzo in legno nodoso e selvatico di olivastro che da quelle parti la femmina accabadora usava per sfondare il cranio ai suoi pazienti: «Era il 1981, l'accabadora lo aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era stato la casa sua. Un vecchio mi aveva parlato di quella dorma, ma non si ricordava il nome, ho fatto tutte le ricerche possibili sulle levatrici che operavano a Luras fino a prima dell'ultima guerra e alla fine ho capito di chi si trattasse». Il dottor Pala sostiene che il suo mazzolo sterminatore, di cui va molto fiero, sia senz'altro l'ultimo ancora in giro. E' immortalato in tutte le foto del museo. Bello, anche lui pesante, di legno lucido che sembra ferro. Lo espongono in un simpatico diorama, è appoggiato sul cuscino del lettone di una tipica camera gallurese. Il letto, il cuscino, su mazzolu... e l'accabadora aveva tutto quello che le serviva per la sua utile bisogna. H raro mazzolu per tenninare è diventato oggi il gadget più richiesto tra i tanti souvenir in vendita all'uscita del museo. Riprodotto in un ciondolo d'argento saltella inoffensivo tra i seni delle visitatrici, le pronipoti di accabadoras lo hanno trasformato in uno scherzo deterrente per le tentazioni adultere dei loro uomini. E' in Barbagia, nella Sardegna più restia all'onta della civilizzazione, che l'accabadora ha un modo di operare che la rende ancora più vicina a una madre. E' a Orgosolo, che il professor Bucarelli ci aveva detto, negli Anni 50 ancora qualcuno apriva le porte di casa all'accabadora, qui è figura di mitologie dimenticate, quando operava era come se volesse risucchiare la vittima attraverso la matrice che l'ha generata. A Destilo c'è un proverbio: «Canno lompia est s' ora, benit s'accabadora». Quando è il momento lei arriva: «Se qualcuno era malato e soffriva molto la famigha chiamava questa dorma che andava e lo strangolava, la pagavano cinque litri di grano o come potevano - è la trascrizione del racconto di Maria Fiori classe 1902. E' morta nel '96, ma è stata ima delle poche testimoni dirette del rito - l'accabadora non era benvoluta, ma neppure odiata, nessuno comunque la frequentava perché ammazzava la gente. Era indispensabile perché non c'erano le medicine per non far soffrire». E dai ricordi di chi vive da quelle parti sembra che la sterminatrice di moribondi abbia lasciato quasi un fondo di nostalgia per come compiva quell'atto estremo suscitando terrore ed erotismo incollati assieme. La dorma si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del morente tra le sue gambe. Lo accarezzava e cominciava a cullarlo come fosse un bambino. Gli cantava la stessa ninna nanna che lui si sarà sentito cantare dalla propria madre, quando finalmente l'agonizzante toma infante lei lo uccide con la forma più sensuale di strangolamento. Se non basta lo soffoca con un cuscino. Antonangelo liori, nativo di Desulo, ha ricostruito storie di simili abbracci letali in anni di ricerca in Barbagia e più in generale nell'area del Nuorese. Ha variamente scritto su demoni, miti e riti della Sardegna: «Ho interrogato una signora di Beivi, molto anziana morta un paio di anni fa, mi ha raccontato di queste donne che uccidevano per mestiere. In particolare mi ha parlato di un'accabadora nota a tutti come il corvo, perché vedova. Quando questa nel 1922 si prese tra le gambe il figlio di un certo Antioco, con cui la sua faraiglia era in lotta per una vecchia faida, la signora compose una canzoncina per ricordare 1' evento». I versi sono crudi e intrisi di sete di vendetta: «su fighi 'e antiogu mortu in eoa 'e crobu tinni etto 'e fogu de fogu tinne etto e a s'Iferru t'imbetto». «Il figlio di Antioco è morto nel grembo del corvo, ti ricoprirò di fuoco, di fuoco di ricopro, e ti aspetto all'inferno». Catena di sangue etema e spietata che nemmeno la sterminatrice riesce a spezzare. L'odio non ammette attenuanti, alla donna sarà sembrata una morte troppo invidiabile, quando ha visto l'accabadora che strozzava quel nemico di famiglia stringendolo tra le cosce. Secondo un antico rituale r«accabadora» si accovacciava dietro al capezzale e stringeva la testa del morente tra le gambe. Se la pressione non era sufficiente, lo soffocava con un cuscino ■:\:^.'-<" ■ ' V. ... ' ■t,; ■ . . i . ^ ;■■ ''*-. lis -.'J ^^«it:-: /-..li.. il TERMINATRIIC::. T--; .■.■i::":--;:; :v. ^■;. ' :- '■*-: ■■- W DALLA TRAGEDIA AL FUMETTO La femmina accabadora è protagonista di uno dei fumetti più trendy del momento. Smazzola a volontà nell' avventura del numero 59 di Dampyr intitolata appunto "LeTerminatrici". L'album del mitico editore Sergio Bonellì è illustrato da Majo, il soggetto e la sceneggiatura sono di Mauro Boselli, che da quanto scrive in una prefazione, è stato ispirato a raccontare della nera terminatrice dopo una conversazione, avuta aCapoterra un paio di anni fa, con un conoscitore di tradizioni sarde, il professor Gavino Maieli. L'eroe ammazza vampiri Dampyr si trova al centro di una faida tra due famiglie dell' entroterra sardo. Naturalmente durante la rievocazione dell' antico carnevale riappare I1 accabadora animata dallo spirito inappagato di una bruxa (strega) morta quasi cento anni prima. La ricostruzione del rito dell' eutanasia è molto rigorosa, su mazzolu è riprodotto fedelmente su modello del reperto originale conservato al museo di Luras. m UN GIOGO PER IL COLPO FATALE Era considerato un oggetto quasi sacro, chi lo rubava veniva giudicato peggio che un omicida. Veniva passato dietro alla nuca del moribondo da assistenti della «terminatrice». Un colpo ben assestato di quella trave sagomata, di legno massiccio e ben pesante, su una vertebra del collo risultava ovviamente fatale all'organismo malato COL «MAZZOLU» SI SFONDAVA IL CRANIO Al PAZIENTI "•«*- tàfrJSfeS,'-'-'- nn"*' '«i-.v"-.-.^ L'unico esemplare esistente di «su mazzolu», l'attrezzo in legno nodoso e selvatico di olivastro che la femmina accabadora usava per sfondare il cranio ai suoi pazienti. Il pesante legno lucidato dal tempo sembra quasi ferro. Una delle ultime «terminatrici» l'aveva nascosto in un muretto a secco vicino a un vecchio stazzo che una volta era stata la sua casa.