Ma una forza polìtica unica non piace agli elettori di Riccardo Barenghi

Ma una forza polìtica unica non piace agli elettori IL BIPOLARISMO E' STATO ACCETTATO, PERO CHI VOTA VUOLE POTER SCEGLIERE UN «SUO» RAPPRESENTANTE Ma una forza polìtica unica non piace agli elettori La semplificazione rende più forti i due leader e indebolisce tutti gli altri analisi Riccardo Barenghi ROMA UNA grande casa comune a sinistra, una altrettanto grande a destra, forse una palafitta all'estrema sinistra e un monolocale all'estrema destra. Aggiungiamoci piccole capanne di qua e di là che via via nascono e scompaiono e avremo la fotografìa di un eventuale sistema politico del futuro prossimo. A patto ovviamente che vinca la linea di Prodi e quella di Berlusconi per una volta d'accordo ossia che i due schieramenti si sistemino più o meno in due grandi nuovi partiti unici con qualche piccolo aggregato renitente alla leva ma interessato ad allearsi. E' evidente, basta guardarla di sfuggita, che dentro questa fotografia i due soggetti principali sarebbero appunto i due rivali di oggi (o i loro sostituti di domani). Leader e protagonisti, facce dei rispettivi schieramenti, generali che guidano potenti corpi d'armata. In primo piano ci sarebbero loro due, gli altri dietro o di lato. Da una rivoluzione così semplificatrice del nostro assetto attuale, chi ci guadagnerebbe di più sarebbero appunto i capi, chiunque essi siano. I quali non sarebbero più «solo» i leader defjli schieramenti ma anche dei due partiti più potenti, ognuno dei quali potrebbe contare su consensi elettorali che vanno dal trenta al quarantacinque per cento. Finirebbe l'epoca dei joteri di veto dei partitini i piccoli ma decisivi per vincere), dei loro cosiddetti ricatti, che tuttavia potrebbero anche essere declinati in altro modo, come idee, programmi, progetti, istanze, rappresentanza di ceti sociali. Sia come sia, non c'è bisogno di sforzarsi troppo per capire che la politica girerebbe tutta attorno ai due rivali, come succede da sempre in America o in Inghilterra. A parte il fatto che noi non siamo americani né inglesi e la semplificazione non ce l'abbiamo nel sangue, semmai amiamo fin troppo l'articolazione soprattutto in politica. Mi in ogni caso, agli altri protagonisti della politica, partiti grandi o piccoli, converrebbe una scelta del genere? I partiti sanno fare i loro calcoli (o almeno dovrebbero saperlo), dunque se D'Alema e Fassi¬ no pensano che in prospettiva sia sensato sciogliere i Ds dentro un nuovo contenitore insieme alla Margherita e agli altri dell'Ulivo, avranno valutato i costi e i benefici, i guadagni e le perdite tirandone una conclusione positiva. Negativa sembra invece la conclusione alla quale è giunto Rutelli, così come la Lega o l'Udo dall'altra parte. A Rifondazione invece andrebbe benissimo se alla sua destra tutti si fondessero in uno, sempre però che Bertinotti riesca a fare un'operazione simile ma non uguale nel mondo della sinistra radicale; operazione che a sua volta sarebbe diversa da quella che hanno in mente Cossutta e Diliberto, la quale non è uguale all'idea di Occhetto e così via. A Forza Italia invece conviene perché conviene a Berlusconi mentre Fini non lo sa ancora: dipenderà da chi ci sta e chi no. Tutti loro sanno comunque che finora le fusioni politico-elettorali non hanno pagato gran che, anzi: dai socialisti uniti (il flop del Psu di Saragat e Nanni nel'68), al disastroso patto tra Fini e Mario Segni (europee del '99), fino alla Lista unitaria dell'Ulivo che tra europee e regionali non sembra aver sfondato il muro, cioè superato gli elettori dei singoli partiti. Ma non è detto che ciò che è stato si ripeta sempre uguale, magari il vento gira. Tuttavia l'ostacolo principale su questa strada non è rappresentato né dai due leader e neanche dai partiti. Ma dagli elettori, anzi da una certa tipologia dell'elettore italiano. Il quale ha digerito a fatica il nostro sistema semimaggioritario e imperfettamente bipolare. Poi ci si è anche abituato, probabilmente a questo punto gli piace pure l'idea del personaggio da votare, quello che lo rappresenta nelle istituzioni, dal governo del paese alla circoscrizione del quartiere. A una condizione però, cioè che contemporaneamente abbia anche un'altra possibilità di scelta. Una scelta che magari conta poco dal punto di vista numerico (col proporzionale è eletto un quarto del Parlamento) ma moltissimo sotto il profilo simbolico o identitario. O anche, più semplicemente, perché gli consente di esprimere la sua preferen- za politico-ideale in libertà, fuori dall'obbligo non solo dell'alleanza ma anche del candidato. Cioè di votare uno che magari non gli piace per niente, che gli tocca solo perché sennò vince l'avversario, insomma il meno peggio. Invece quando ha la possibilità di votare il «suo» partito, il «suo» rappresentante, quello che sente più vicino, l'elettore medio ritrova quel senso di appartenenza politica e culturale, al limite anche ideologica che, seppur ridotto, resta sempre la base fondamentale della partecipazione alla vita democratica. Gli si può togliere naturalmente questa chance ma va sostituita con qualcosa di altrettanto convincente e coinvolgente per lui. Perché altrimenti il rischio è che quell'elettore, non trovando più il suo premio di consolazione, rinunci a giocare la partita. E decida di non entrare né nella casa di Prodi né in quella di Berlusconi, restandosene tranquillo nella sua di casa. Magari proprio il giorno delle elezioni. Marco Follini alla Camera mercoledì durante il dibattito sulla fiducia

Luoghi citati: America, Inghilterra, Roma