MUSSOLINI Le ultime ore del Duce di Mattia Feltri

MUSSOLINI Le ultime ore del Duce MUSSOLINI Le ultime ore del Duce Mattia Feltri inviato a D0NGO QUANDO sentì il compagno gridare «Ghè chi el crapùn!», il partigiano Bill saltò sul camion. Bill si fece largo fra i tedeschi verso l'uomo che il compagno gli aveva indicato. Un tedesco disse: «Camerata ubriaco». Bill si rivolse all'uomo: «Camerata!». L'uomo non rispose. Bill ci riprovò con un appellativo meno ironico: «Eccellenza». Ancora silenzio. Ancora Bill: «Cavaliere Benito Mussolini». L'uomo si scosse. Bill gli levò l'elmetto della Wehrmacht e gli abbassò il bavero del cappotto, pure in dotazione all'esercito tedesco. Bill tacque qualche istante. L'uomo stringeva un mitragliatore. Bill glielo prese e domandò: «Avete altre armi?». L'uomo aprì il cappotto e mostrò una pistola infilata nei pantaloni. Bill disse: «Vi arresto in nome del popolo italiano». L'uomo non disse nulla. Scese dal camion aiutato dai partigiani. Bill e un secondo compagno lo scortarono verso il municipio di Dongo tenendolo per le braccia. La pioggia era battente e la piazza piena e muta. Vilma Conti, staffetta partigiana, sentì una voce: «Il Duce...». L'uomo attraversava la piazza e un altro: «Il Duce...». Ogni bocca pronunciò le due parole: «Il Duce...». Sembrava quasi l'antica ovazione: «Duce! Duce! Duce!». Vilma Conti: «Sì, come quando ero ragazzina e infervorata. Ascoltavo i discorsi alla radio, e mi incantava quel boato lontano: Duce! Duce! Duce!...». Benito Mussolini aveva cominciato il suo ultimo giorno da uomo libero telefonando alla moglie Rachele. Erano entrambi a Como. Mussolini ci era arrivato la sera del 25 aprile 1945 dopo aver lasciato Milano intomo alle otto di sera mentre l'arcivescovo e i partigiani lo aspettavano per trattare la resa. Mussolini e Rachele non si incontrarono. Al telefono lei cercò di rassicurarlo e lui scorato: «Non c'è più nessuno intorno a me». Poi aveva scritto a Winston Churchill: «Forse siete il solo, oggi, di cui io non debba temere il giudizio. Non chiedo quindi mi venga usata clemenza, ma riconosciuta giustizia, e la faco! cà di giustificarmi e di difendermi». Ma la lettera non giunse al destinatario. Poco dopo la carovana con i gerarchi partì lungo la sponda occidentale del Lago di Como puntando verso Nord. Non si era ancora deciso se l'obiettivo fosse la Svizzera oppure la Valtellina. Nel tardo pomeriggio la carovana si fermò in un albergo di Orandola, piccola frazione del comune di Menaggio, poco più a Nord del punto in cui il lago si dirama. Si decise di trascorrere lì la notte per ripartire prima del sorgere del sole insieme con una colonna tedesca diretta in Austria. A Dongo, di partigiani ne erano rimasti pochi. Nei giorni precedenti c'erano stati rastrellamenti eccezionali e decisi. «In tutta la zona, eravamo rimasti in quaranta, forse meno», ricorda Vilma Conti. Ed erano spaventati. Sapevano delle torture: il ferro attorno alla testa, l'olio bollente cacciato giù in gola che portava a un'orribile morte. Avevano saputo della colonna tedesca in sosta a Menaggio e pronta a ripartire verso Settentrione, cioè verso Dongo. Temevano che arrivassero per altri rastrellamenti e così, fra Musso e Dongo, sul costone del Puncett, dove la strada è stretta, obbligata a una brutta curva e a strapiombo sul lago, avevano messo pietre e tronchi d'albero per sbarrare la strada. Speravano di evitare nuove repressioni, anche perché i centri a Nord di Dongo erano stati liberati il 26: i pochi tedeschi rimasti dopo la liberazione di Milano e i fascisti si erano arresi. Otto partigiani erano di guardia sul Puncett e furono loro, poco prima delle 6 del 27 aprile, a ordinare l'alt alla colonna tedesca composta da quaranta camion, un paio di autoblindo e dieci auto civili; fra tedeschi e fascisti, gli uomini armati erano forse trecento. Dunque, dopo aver fermato la colonna, gli otto partigiani si posero una domanda: «E ora?». Qui a Dongo dicono che quegli otto partigiani erano molto giovani. Magari sprovveduti, forse più incoscienti che coraggiosi, di certo gene- rosi. Ma non erano assassini. Vilma Conti, quando poco dopo le quattro del pomeriggio Mussolini venne rinchiuso a Palazzo Manzi, nella sede municipale, e precisamente nella stanza a pianterreno oggi occupata dai vigili urbani, ottenne il permesso di entrare e vedere il Duce. «Il mio Duce». Vilma aveva sedici anni. Aveva adorato Mussolini e il fascismo, ma con la guerra civile si era data alla lotta partigiana. E il 27 aprile 1945 potè guardare in faccia, per la prima e unica volta, l'uomo che tanto aveva amato, poi contrastato, ma mai odiato. Non si avvicinò e non gli rivolse la parola. «Eravamo fatti così. Non ci veniva spontaneo parlare liberamente con gente più adulta e importante di noi. Mussolini era "Eccellenza"», dice oggi Vilma. Anche Bill chiamò Mussolini «camerata», ma poi «Eccellenza» e «Cavaliere» e arrestandolo gli diede del voi. I tedeschi, che credevano molto più numerosa la brigata partigiana e volevano evitare altri scontri, accettarono di consegnare gli italiani e in cambio ebbero il via libera. La trattativa era durata qualche ora e nel primo pomeriggio la colonna aveva cominciato a scendere dal Puncett verso la piazza di Dongo. Di salvare Mussolini, ai tedeschi ormai importava poco. Gli diedero un'ultima chance, ospitandolo su un loro camion e camuffandolo con l'elmetto e il pastrano. Mussolini trascorse a Dongo poche ore. I partigiani, accorsi da tutta la zona, valutarono il municipio troppo esposto e trasferirono l'ostaggio nella caserma della Guardia di Finanza di Germasino, più a monte. Carcerieri e carcerato cenarono insieme: pastasciutta in bianco e frittata e bevvero spuma. Nella notte Mussolini venne nuovamente spostato, stavolta a Mezzegra, frazione Giulino, una ventina di chilometri più a Sud di Dongo. Ai partigiani lasciò un biglietto con il quale attestava che «il trattamento usatomi durante e dopo l'arresto è stato corretto». Il 28 mattina arrivarono «quelli di Milano» per prendere in consegna il Duce. Erano Walter Audisio e Aldo Lampredi, uomo di Luigi Longo, futuro segretario del .pei. A Dopgo rividero Audisio e, Lampredi inél pomeriggio. Allà'tèsta dei «partigiani venuti da fuori» vollero fare vendétta dei quindici compagni uccisi a piazzale Loreto nell'agosto del '44. E quindici dei gerarchi arrestati vennero schierati sul lungolago per la fucilazione: fra loro Bombacci e Pavolini. Il sindaco, nominato due giorni prima, si dimise per protesta. I partigiani di Dongo, sospettando una messa in scena, si piazzarono armati sui tetti della piazza. Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla Presidenza, chiese di essere fucilato al petto, ma non venne accontentato. Furono tutti obbligati a girarsi verso il lago. Prima della raffica gridarono «Viva l'Italia!». A esecuzione avvenuta, qualcuno dalla folla infierì sui corpi con altri colpi di pistola e fucile. I cadaveri vennero caricati su un camion che ripartì verso Sud, per tornare a Milano. Fece tappa per raccogliere le salme di Mussolini e Claretta Petacci, abbattuti qualche ora prima: da chi e come è materia ancora controversa. Aveva cominciato il suo ultimo giorno da uomo libero telefonando alla moglie. Erano entrambi a Como Aveva lasciato Milano intorno alle otto di sera mentre l'arcivescovo e i partigiani lo aspettavano pertrattarelaresa Benito e Rachele non si incontrarono Al telefono lei cercò di rassicurarlo e lui scorato: «Non c'è più nessuno intorno a me» Nella cittadina tutti dicono che quegli otto partigiani erano molto giovani Ma non erano di certo assassini Il duce assieme a sua moglie Rachele li plotone di esecuzione e la fucilazione dei gerarchi della Rsi Il camion tedesco sul quale viaggiava nascosto Benito Mussolini